Testo della relazione tenuta da Paolo Baratta presso il Consiglio di Stato – Palazzo Spada, il 12 dicembre 2016 in occasione della giornata dedicata a “Gabriele Pescatore, l’uomo, il giurista, il meridionalista” – in Atti del convegno e in Rivista economica del Mezzogiorno a. XXX n.2, 2016, pagg. 716-724

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1. La Cassa come novità

Gabriele Pescatore fu nominato Presidente della Cassa per il Mezzogiorno nel 1954 e tenne l’incarico fino al 1976. Fu una scelta lungimirante. La Cassa come strumento fortemente innovativo dell’azione pubblica avrebbe trovato nella sua cultura giuridica un chiaro interprete. E per contro avrebbe trovato nel suo carattere e nelle sue convinzioni un coraggioso assertore delle ragioni prime che avevano condotto alla sua costituzione.

Il compito non era semplice. La Cassa si distingueva dai vari soggetti pubblici «speciali» e autonomi creati nel corso del secolo per favorire lo sviluppo (INA, CREDIOP, ICIPU, IRI, ecc.). Con la Cassa infatti non si dilatava l’area dell’intervento pubblico. Essa veniva costituita per sviluppare un programma straordinario di attività in campi affidati alla competenza delle pubbliche amministrazioni (centrali e locali).

In sintesi: una parte degli interventi rientranti nelle competenze delle amministrazioni e di enti pubblici centrali e locali, sarebbero stati promossi e programmati da un nuovo soggetto e secondo nuovi procedimenti decisionali (approvazione di piani da parte di un Comitato dei Ministri); per un intervento straordinario si definiva un modo straordinario di essere dello Stato.

Le origini della Cassa come è noto sono molteplici. Si partiva dalla esigenza manifestata da parte di organismi intenzionati a finanziare la ricostruzione del nostro Paese, di avere di fronte a sé un riferimento sicuro per la destinazione delle somme prestate (siffatta esigenza emerse, come è noto, dopo l’armistizio e i primi aiuti, ma in particolare da parte della BIRS quando cioè si iniziò a parlare dei possibili interventi della nuovissima Banca Mondiale). Tale esigenza veniva a coincidere con le intenzioni espresse da un’ampia area di opinione che riteneva la ricostruzione postbellica occasione per impostare un’azione in favore del Mezzogiorno. C’era chi si limitava a chiedere di alleviare le condizioni del Sud e chi riteneva invece che era tempo di organizzare un intervento pubblico mirante allo sviluppo del Mezzogiorno.

Pescatore era tra questi. Era un convinto meridionalista appartenente a quello che chiamavamo allora «meridionalismo moderno».

2. Un meridionalista moderno alla guida della Cassa

Il «meridionalismo classico» aveva studiato e approfondito le cause dell’arretratezza, reso edotto il Paese dei problemi che l’unificazione italiana aveva lasciato irrisolti, e invocato il completamento dell’unificazione del Paese, ma in linea generale, al dunque, concludeva con due opposte prospettive. Da un lato che il libero mercato avrebbe, nei tempi lunghi, favorito l’unificazione. All’opposto, si concludeva, solo trasformazioni politiche rilevanti e radicali avrebbero consentito lo sprigionamento delle energie sociali necessarie ad avviare il superamento dell’arretratezza.

Il meridionalismo moderno era di natura meno ideologica e più pragmatica e riuniva in sé persone di provenienza culturale e politica diverse, mosse da una sollecitudine a dar contenuti nuovi e riformatori alle scelte dell’Italia che rinasceva dopo il conflitto. Più precisamente affermava che le trasformazioni occorse in Italia, pur nel forte dualismo, avevano comunque modificato la realtà, e che era giunto il momento in cui si poteva impostare la «questione meridionale» come «problema di sviluppo», da affrontare con un consistente programma pluriennale di interventi coordinati.

E Pescatore era ben consapevole della portata dell’innovazione rappresentata dalla Cassa. Nelle sue parole «il complesso normativo con cui si istituiva la Cassa era da collocarsi per innovazione e originalità tra i pochi esempi di riforma organica dell’amministrazione pubblica in Italia dal dopoguerra».

Pescatore va ricordato certamente per le convinzioni di meridionalista ma soprattutto come amministratore di cosa pubblica che quelle convinzioni traduceva in impegno e che nel compito straordinario affidatogli leggeva anche con chiarezza tutti i problemi del funzionamento del nostro sistema.

Aveva ben chiara di fronte a sé una semplice verità: gli interventi erano efficaci se coordinati e programmati, altrimenti (se occasionali, incompleti o incompiuti) ottenevano il risultato opposto, quello di dissipare risorse.

Se questa considerazione valeva nei programmi per favorire lo sviluppo del Mezzogiorno, essa è pur tuttavia valida sempre e ovunque, e riguardava il governo del territorio e in ultima analisi il governo del Paese.

L’azione della Cassa e i non pochi ostacoli che incontrava rivelavano in tutta la sua ampiezza una «questione amministrativa» e una connessa questione « politico-istituzionale» che emergevano nel Mezzogiorno con particolare intensità ma riscontrabili in tutto il Paese.

3. La Cassa: un ordinamento particolare

L’ordinamento messo in essere nel 1950, che qui brevemente sintetizziamo era formato su quattro livelli:

  • in alto una legge e uno stanziamento pluriennale (10 e poi 15 anni), una sorta di fondo di dotazione;
  • un Comitato di Ministri che avrebbe definito il piano di azioni e le destinazioni delle risorse per campi, ambiti e settori;
  • un organismo di attuazione, la Cassa che avrebbe con propria delibera attivato gli stanziamenti sui singoli progetti a favore delle amministrazioni realizzatrici;
  • e infine le amministrazioni «ordinarie» e gli enti pubblici

La Cassa per queste decisioni aveva ampia autonomia, in modo da far corrispondere i singoli stanziamenti alla maturazione di progetti compiuti, e quindi alla concreata possibilità di rapida e completa esecuzione.

Per questa funzione era dotata di alcune capacità specifiche anch’esse qui di seguito riassunte.

La delibera del Consiglio della Cassa relativa alla realizzazione di un intervento con relativo stanziamento aveva valore di dichiarazione di pubblica utilità.

Dato lo stanziamento complessivo poteva operare su base pluriennale, svincolata dalla Legge di bilancio che prevedeva stanziamenti annuali.

Oltre ad una dotazione di personale distaccato o assunto a termine poteva far ricorso a progettisti iscritti ad un albo.

Un ufficio distaccato del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici assicurava rapidità di decisioni.

Gli atti controllati da un organo interno del tipo collegio sindacale in seduta permanente e con una presenza della Corte dei Conti, consentiva di ricondurre il controllo della Corte ad un controllo sull’attività e non sugli atti.

Dotata di una propria personalità giuridica, di diritto pubblico, e di proprie capacità tecnico-progettuali, operava attraverso affidamenti e concessioni ad altre amministrazioni ed enti; in minor misura operava essa stessa come stazione appaltante. Erogava a privati in alcuni casi, ad esempio nel caso dei contributi agli investimenti industriali.

Ho richiamato queste caratteristiche al fine di chiarire quale fu veramente il ruolo della Cassa. Esso fu innanzitutto un ruolo di finanziatore, vivificatore, animatore e coordinatore di azioni delle amministrazioni pubbliche esistenti e operanti sul territorio del Mezzogiorno, nonché animatore nel crearne nuove ove necessario (consorzi); ciascuna di queste era messa nelle condizioni di realizzare progetti, vagliati dall’apparato tecnico della Cassa nella qualità progettuale e nella coerenza programmatica.

4. L’azione di fertilizzazione sulle amministrazioni ordinarie svolta dalla Cassa

In alcuni casi la Cassa di fatto si limitò a trasferire risorse ad altri soggetti (Ferrovie, Ministero dell’Agricoltura per la riforma agraria) per consentir loro la realizzazione di progetti, non prima di averli vagliati. In questi casi di fatto trasferiva ad essi i vantaggi della finanza pluriennale (funzione che mutatis mutandis ricordava un poco quella che fu del CREDIOP).

In molti altri campi l’impegno era assai più complesso, in particolare ogni qualvolta, ed era quasi la norma, i soggetti cui si dovevano affidare o concedere le realizzazioni presentavano gravi carenze organizzative e strutturali.

Rileva Pescatore che si era in presenza di «Amministrazioni centrali dove mezzi di impostazione pianificativa (sic!) e propulsione esecutiva mancano, i cui strumenti quando non sono invecchiati o pletorici sono spesso tecnicamente inidonei», il tutto aggravato da un ordinamento rigido per competenze verticali di per sé ostacolo al coordinamento. Vi erano poi enti locali «mal provvisti di personale tecnico e di strutture operative efficienti» quando non anche di finanza propria: dai Comuni alle Province, ai Consorzi di bonifica (e poi a quelli per le aree industriali) e agli enti acquedottistici, dormienti o inesistenti ecc. Il tutto in un quadro di competenze e normative preesistenti, ciascuna chiusa in logiche interne e non riconsiderate dal legislatore per rendere efficiente il «nuovo» (per fare un esempio, le nuove grandi reti primarie di adduzione dell’acqua si fermavano ai confini dei Comuni cui spettava l’esclusiva competenza della gestione della rete locale).

Tutto ciò non solo rendeva assai difficile l’operare della Cassa, ma anche rappresentava un serio ostacolo al coordinamento con le altre azioni ordinarie.

La dilatazione delle possibilità operative della Cassa sembrava dunque necessaria per consentire lo svolgimento di funzioni suppletive e per consentire una più coordinata organicità dei programmi. Purtroppo l’apertura dei campi operativi, avvenendo per grandi settori di opere, consentiva anche di estendere l’attività della Cassa oltre i «complessi organici» e gli «ambiti» previsti all’inizio del suo operare, verso uno sparpagliato intervento sul territorio (dopo le strade provinciali, fu la volta dell’edilizia scolastica, degli ospedali, dei porti e aeroporti, delle scuole materne, delle aree di particolare depressione, delle reti interne di fognature anche in piccolissimi centri, e delle aree terremotate, ecc.).

E qui emergeva una ben nota contraddizione tra la circostanza che al centro la classe politica era riuscita a dotare il Paese e il Mezzogiorno di uno strumento speciale di programmazione, lo stesso strumento che veniva poi sollecitato e utilizzato per fini del tutto ordinari, non quindi come facilitatore di azioni coordinate, ma come facile via per realizzare interventi singoli. E va detto che la realtà meridionale con la sua diffusa arretratezza offriva molti spunti per reclamare interventi diffusi, e che questi interventi senza la Cassa non sarebbero stati realizzati.

Fenomeni contraddittori del genere si verificarono anche nei confronti di altri strumenti speciali dell’azione pubblica: si pensi all’industria pubblica e alle Partecipazioni Statali.

Spesso nella storia delle classi dirigenti del nostro Paese si intravede lo spirito di Crono, la figura mitologica, il titano, che in momenti vigorosi e lucidi creava figli che avrebbe poi divorato. Solo che lui lo faceva per esser sicuro di sopravvivere mentre una classe dirigente a furia di divorare le proprie migliori creature finisce con il divorare se stessa.

Il fenomeno della dispersione mi apparve in tutta la sua estensione allorché, nel 1995, quale Ministro dei Lavori Pubblici mi dovetti occupare della rilevazione delle opere incompiute che residuavano dalla liquidazione dell’Agensud erede della Cassa. Un elevatissimo numero di casi minuti spesso incagliati da tempo dove l’autorità locale non era stata in grado di completare progetti o di renderli funzionali e che dovettero essere affidate ai Ministeri competenti.

È tenendo conto di tutto questo che appare in tutta la sua importanza quell’imponente complesso di interventi organici che poté essere realizzato, con intenso impegno della Cassa fin dal primo decennio del suo operare (e su questo non vi possono essere dubbi): dagli acquedotti, alla bonifica e poi ai consorzi per le aree industriali ecc… che qualsiasi esame oggettivo di dati statistici consente di elencare, e ai quali rinviamo. Così come dobbiamo rinviare ai numerosi studi reperibili sulle vicende del processo di industrializzazione, particolarmente intenso nel periodo fino alla crisi degli anni ’70.

5. La questione del coordinamento e le esperienze (inconcludenti) della programmazione

Pescatore per tutta la sua vita operativa oscillava con viva passione tra l’orgoglio della importanza del lavoro svolto e l’indicazione ferma e costante degli ostacoli che impedivano il pieno dispiegarsi delle grandi potenzialità di quell’ordinamento.

Il coordinamento delle azioni: questo il principale punto critico. Coordinamento nei due momenti: quello delle attuazioni programmate «sul campo», e quello tra queste e le politiche generali e settoriali adottate dal Paese.

Circa il coordinamento in fase attuativa, la Cassa stessa aveva introdotto una importantissima innovazione: la autonomia nella programmazione attuativa, che portava con sé anche la formazione di un esteso presidio di tecnici qualificati (e al Comitato dei Ministri e intorno alla Cassa) che ovviava alla scarsa e decrescente disponibilità di corpi tecnici nelle amministrazioni ordinarie anche centrali.

Essa in qualche modo rappresentava un tentativo di introdurre nell’operato della pubblica amministrazione logiche organizzative note al mondo dell’impresa di produzione. Si riconosceva infatti che quando si deve svolgere un’azione pubblica multiforme continuata e finalizzata, proprio come nello sviluppare un’impresa, il momento dell’attuazione non deve essere ridotto alla banalità dell’esecuzione di disposizioni, ma deve essere riconosciuto nella sua complessità e affidato con delega ad una capacità autonoma che sappia gestirla nel tempo (questa in un certo senso la vera novità della Cassa e da qui anche quella natura mista ad un tempo di organo della PA e di ente autonomo, che la caratterizzava).

Alla richiesta di maggior coordinamento in fase attuativa, corrisposero negli svolgimenti degli anni successivi nel nostro Paese altri fenomeni: dapprima la programmazione nazionale, poi la nascita delle Regioni a statuto ordinario.

La programmazione portò ad un crescente insieme di nuove normative che disegnavano un vasto onnicomprensivo coordinamento a monte, al livello delle grandi decisioni politiche, decisioni alle quali avrebbero dovuto poi attenersi tutte le amministrazioni tradizionali.

Spietato e lucido il giudizio di Pescatore su questa lunga serie di interventi introdotti con successive leggi di riordino.

La legge 634/1957, oltre a introdurre i consorzi per le aree industriali, demandò al Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno la potestà di coordinare i programmi dei Ministeri con quelli della Cassa, dice Pescatore «il tentativo rimase senza successo».

La legge 717/1965 rafforzò la figura del Ministro, ma trasferì al CIPE la funzione primaria di coordinamento e introdusse gli obblighi giuridici, derivanti dall’approvazione del piano, sia per la Cassa che per le amministrazioni, della predisposizione dei provvedimenti di attuazione. Pescatore cita Massimo Annesi «il piano di coordinamento non ha assolto a tale funzione, senza indicazioni precise e precise prescrizioni esecutive, il piano si sostanziò in indicazioni generiche talvolta in soli auspici. Valga poi il fatto che il piano di coordinamento era concepito come pluriennale ma il bilancio dello Stato restava annuale».

Analogo apprezzamento per le buone intenzioni, ma giudizio negativo sugli esiti, circa i cosiddetti «progetti speciali» introdotti dalla legge 853/1971, e ancora per le innovazioni della legge 183/1976. «Si accentuava la pluralità dei soggetti titolari di poteri e legittimati ad intervenire nel complesso procedimento» senza considerazione delle capacità realizzatrici.

Si finì con il cadere in un circolo vizioso: la mancanza di fatto di un vincolo attuativo per la grande pluralità di soggetti coinvolti ebbe anche l’inevitabile conseguenza della diluizione delle prescrizioni in indicazioni generiche, il tutto ben confezionato dal punto di vista estetico in armoniche astratte previsioni normative.

I piani e i documenti programmatici a livello centrale e soprattutto regionale divennero una sorta di genere letterario, tra la fantascienza e il catalogo dei francobolli; tutto infatti era concesso alla fantasia dei preamboli e nulla doveva essere dimenticato quando si elencavano i luoghi, le categorie, le attività citate come destinatarie di interesse e possibilmente di risorse.

Nei decenni che seguirono la fine dell’intervento straordinario le amministrazioni operanti nel Mezzogiorno non furono in grado di elaborare e adottare progetti in misura adeguata ad utilizzare le disponibilità che pur l’Unione europea offriva.

Emerge da queste vicende una constatazione. Alla base del modello ideato con la Cassa stava anche la convinzione che è proprio la presenza (in basso) di strumenti attuativi efficaci che può indurre (in alto) maggior coerenza ed efficaci scelte nelle politiche generali.

Pescatore lo ricordiamo negli anni della Cassa sempre attento, teso e sovente infastidito nell’infinita pioggia di parole che accompagnava in quegli anni il dibattito sul Mezzogiorno, infastidito soprattutto quando ascoltava critiche all’azione della Cassa costruite senza conoscerne le funzioni e lo scopo e, per contro, quelle mosse da chi addossava alla Cassa ruoli del tutto eccedenti ed esorbitanti: addirittura l’intero compito dello sviluppo del Mezzogiorno.

6. Conclusioni: la Cassa come esempio di ordinamento per le politiche territoriali e i vuoti dell’oggi

Se i dati quantitativi possono offrire chiare misure dell’operato della Cassa, e di dati quantitativi c’è una vera messe (e la SVIMEZ ne può offrire in grande misura), una storia della Cassa fatta nel nome di Pescatore dovrebbe secondo me riguardare la fenomenologia del suo operare: dovrebbe cioè riguardare la misura in cui fu resa efficace l’azione amministrativa rispetto alle condizioni ordinarie, gli ostacoli e le misure messe in atto per superarli.

E da questa storia trarremmo molte considerazioni assai utili anche per il presente; ai fini della costruzione di un più efficace sistema amministrativo.

Molte cose certamente sono cambiate, soprattutto nelle grandi opere pubbliche e di pubblica utilità. Valga per tutte la circostanza che le autorità politiche locali, allora in corsa per sollecitare opere sul loro territorio, oggi sembrano assai più impegnate nel rifiutarle; fenomeno che ripropone il problema del livello istituzionale più opportuno per il domicilio dei relativi poteri e delle relative competenze.

Ma vi sono campi relativi alla gestione del territorio che richiedono una modalità d’intervento non dissimile da quella identificata per la Cassa. Perseguire l’obiettivo multiforme delle «infrastrutture per lo sviluppo» poneva infatti problemi strategici e organizzativi non diversi da quelli che si ritrovano in vari campi della gestione del territorio: manutenzione, conservazione, tutela e promozione. E anche per queste azioni il modello fondato sui quattro livelli operativi sopra richiamati e sulla «delega per l’attuazione» può essere ancor oggi motivo di ispirazione.

E non si insisterà mai abbastanza nel sottolineare l’importanza di organismi di coordinamento e attuazione capaci di assicurare la presenza e l’opera di corpi tecnici dedicati onde presidiare con continuità le diverse azioni.

Nel corso degli anni recenti si è continuato a sottovalutare le conseguenze della carenza di corpi tecnici nelle amministrazioni pubbliche, e non possiamo dunque sorprenderci del fatto che ci si ritrova affannati nel fare appalti e nel gestire la vigilanza sulle grandi e piccole opere, che non vi è una vera cultura della vigilanza sulle concessioni di costruzione e gestione, né sulle imprese concessionarie dei servizi pubblici, e che, compiaciuti di aver corpi attrezzati per le emergenze, non possiamo certo esserlo per gli interventi di prevenzione e cura sistematica del territorio.

La crisi nelle finanze dello Stato sembra aver peggiorato il quadro (non si sente quasi più parlare delle Autorità di bacino fluviale, né degli interventi sistematici nella laguna di Venezia, né di programmi estesi di prevenzione antisismica, di programmi relativi alle coste, mentre per le città si opera alla dimensione delle particelle catastali, e il CIPE, teorico centro della programmazione nazionale, dispensa risorse qua e là ogniqualvolta si scoprono «tesoretti»).

L’esperienza della Cassa e di quella grande figura che fu il suo Presidente ci dovrebbe illuminare invece a innovare e ricostruire un’amministrazione dove quello che appariva straordinario allora e appare purtroppo straordinario ancor oggi, diventi la norma di un civile operare.

7. Il ricordo dei «compagni di viaggio»

Pescatore fu, in anni successivi all’impegno nella Cassa, consigliere della SVIMEZ. Si formalizzava così in realtà un legame antico e costante. Alla SVIMEZ la Cassa era conosciuta e studiata. Alla stima di tutti noi e di Saraceno in particolare si aggiungevano le collaborazioni e gli studi di Marongiu, di Annesi, di Dell’Angelo, di Cafiero, di Carabba, di Novacco, di Zoppi, del sottoscritto e di tanti altri. Per quanto mi riguarda ho sempre avuto la sua figura tra i punti di riferimento ogniqualvolta, negli anni seguenti, mi sono stati affidati ruoli di amministratore di soggetti pubblici, dall’epoca del CREDIOP-ICIPU, al presente della Biennale.

Nella nostra storia, in particolari momenti, si sono manifestate energie dedicate ad obiettivi di crescita e di evoluzione del Paese, energie e personalità di diversa provenienza culturale e politica. Per cui ritroviamo ad esempio Morandi al fianco di Saraceno e Menichella, e poi Pastore, Pescatore a pensare e agire con pensieri e proposte simili nelle premesse a quelle di Nitti e Beneduce, una sorta di collana virtuosa composta di grandi intelligenze operative ispirate da sentimenti unitari solidali e di giustizia, e che ha sempre avuto nello Stato un punto di riferimento quale soggetto responsabile; persone le cui opinioni su molti punti potevano divergere ma che erano accomunate da questo grande spirito di servizio. Ricordarne una come facciamo oggi è difficile senza collocarla e riconoscerla come parte di questa straordinaria ricchezza.

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