Giuseppe Sinopoli festival
Taormina Arte 15 ottobre 2005

Convegno su “Sinopoli e la Musica degli Affetti”
Intervento di Paolo Baratta

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Agli inizi degli anni ottanta, dominati dalle inquietudini e dalle incertezze determinate dalla fine delle ideologie, mentre catastrofismo e consolazione attraevano in opposte sponde gli animi dei più, capitava a Roma con l’incarico di direttore di S. Cecilia quest’uomo, per il quale il moderno non era finito e il secolo non poteva chiudersi come secolo breve. Con un intervento che potremmo dire quasi in contrattempo, vibrava un poderoso “da capo”.

Sì, da capo, a quando il moderno si avviò nella ricerca più profonda dell’uomo, e delle sue verità più nascoste.

Se tutt’intorno si davan per cadute le ideologie in lui nessuna tentazione al disincanto e alla riduzione del campo di osservazione del pensatore e dell’artista, anzi, semmai un grande desiderio di riappropriarsi dell’incanto, del fascino della realtà umana come realtà ricca da esplorare, da avvicinare e conoscere con la disciplina della scienza, ma ancor più con l’intuito e la simpatia, la commiserazione e la sensibilità. Viveva in modo prepotente il fascino del primordiale, dell’arcano, del mito. E dunque Freud, Wagner, Nietzsche, la Grecia. La decadenza e la purezza. Amore e morte.

Qualsiasi via volesse imprimere agli sviluppi ulteriori l’uomo moderno non poteva prescindere più dalla sua più importante scoperta :il proprio mondo interiore, la propria contradditoria realtà.

Si avviò su un intenso percorso di ricerca e di rivisitazioni, in particolare degli autori che a cavallo dei due secoli precedenti più palesemente e intensamente avevano fatto questa scelta e chiesto alle proprie opere di esprimere questo faticoso processo dell’uomo nella conoscenza di se stesso.

Ma con lo stesso animo affrontò le altre opere musicali, da Schumann ad Alban Berg. Anche per tutte le altre opere l’ interpretazione assumeva innanzitutto il significato di portare alla luce gli elementi che più risultavano impegnati in questa ricerca. Solo così l’opera poteva essere pienamente compresa.

Fu su questa via rigoroso. La sua ricerca interpretativa evitava soluzioni facili o consolidate; evitava la magniloquenza e l’enfasi sempre in agguato quando si affrontano i grandi miti, così come evitava gli eccessi epico-elegiaci , evitava la ricerca del bello musicale in sé, mirando invece a rappresentare con “trasparenza” le verità che voleva cogliere, anche quando espresse in modo magmatico dal compositore.

Esprimeva in ciò una sorte di gratitudine verso la musica, nella quale gli elementi primordiali mitici e magici della realtà umana, spesso ostici all’intelletto, diventano elementi vivi sonori e palpabili, riconoscibili dunque, come tanti personaggi del teatro antico. Sentiva come compito del direttore anche quello di favorire questa evidenziazione., questa continua epifania.

E va detto di passaggio anche della sua onestà intellettuale, quando ammetteva esplicitamente il suo disagio nei confronti di Mozart, che in parte si estendeva (qui fu meno esplicito ed è una mia illazione ) a Beethoven. Mentre tra i “classici” si buttava su Schubert, di cui avvertiva l’affinità per le ragioni opposte a quelle che la convenzione suggerisce. Non per l’ammirazione della capacità di Schubert di rendere seducenti interminabili visioni di serenità, ma per l’opposta ragione: per quel susseguirsi netto, sistematico, interminabile di momenti di apparente pace e momenti di violenta ansia, che egli vedeva nella sua musica e che rendeva persino con impudicizia nelle sue straordinarie interpretazioni.

Questo programma degli anni romani era non l’elaborazione astuta di un intellettuale opportunista, ma l’intenzione di un artista. Di un artista che, pur con tutti gli egoismi propri di questa “specie umana”, si donava con generosa passionale ingenuità, a quanti voleva coinvolgere.

Il percorso era il suo e in quella lunga serie di concerti si poteva avvertire un lavoro volto alla propria maturazione musicale, al proprio cursus artistico, ma il programma non poteva restare un fatto individuale. Doveva coinvolgere.

Il programma mirava ad una sua grandezza. E, per citare il suo pensatore preferito, per la grandezza di un atto occorre il grande animo di coloro che lo compiono e il grande animo di coloro che vi prendono parte.

E fu grande il lavoro di coinvolgimento dell’orchestra, del pubblico, della città, dei critici, degli amici. Le sue proposte per il programma già di per sé rappresentavano una catena di idee che induceva alla riflessione e risvegliava il pubblico ad un attenzione diversa. I primi pensieri poi furono rivolti all’orchestra.

E fu con le prime discussioni su come aiutare un processo di generale elevazione qualitativa per l’orchestra, che si tennero incontri in casa sua fin dai primi tempi, dai quali nacque l’Associazione degli Amici di Santa Cecilia. Associazione che si dette proprio lo scopo di favorire un grande salto: innanzitutto con la pressante richiesta di un nuovo auditorium. Auditorium concepito in quelle riunioni esclusivamente come spazio interno di adeguata altezza e larghezza e qualità acustica tale da creare condizioni nuove e consentire un programma di grande valorizzazione dell’orchestra e del coro.

Riuscì Sinopoli a coinvolgere la città, che stimolò a più alti traguardi per la propria vita culturale. Ad essa offri con nuova sistematicità queste musiche per un apprendimento più profondo, ben al di là delle inevitabilmente distratte routine dei programmi di ogni normale stagione sinfonica.

Si offrì con conferenze nelle occasioni più impegnative. Alcune, relative a Wagner, sono state da noi raccolte a stampa. In esse non è mai il narcisismo del direttore a parlare, ma la passione dello studioso che si entusiasma nell’illustrare le sfaccettature dell’opera, i momenti salienti, i legami con il pensiero filosofico, le verità appalesate e quelle sottintese.

Anche per questo impegno diretto fu ricambiato, alle sue esecuzioni della Tetralogia con record di presenze e attenzione d’ascolto.

Ha confermato che il fare cultura è sforzo e dedizione , mai facile eventismo.

Lo stesso impegno conservava con gi amici al termine delle esecuzioni, in piccoli convivi senza triclini, ma su più umili tavoli di pizzeria, nei quali proseguiva per altre due o tre ore, con insaziata energia, a parlare, descrivere, persino interrogare i presenti sul significato della figura di Loge nella Tetralogia., sulla fondamentale importanza della rinuncia, sul tema della redenzione. Con il vecchio cameriere che nonostante l’ora rallentava il servizio per ascoltare quel che il sacerdote diceva, e con di fronte alcuni dei grandi cantanti che dismessi gli abiti da sera e riacquistata una tipica gioviale, domestica teutonicità, annuivano maternamente ad un suo dire o sgranavano gli occhi nell’apprendere nuovi significati su quel che avevano fatto nelle ultime quattro ore di estenuanti fatiche canore.

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