in “Donato Menichella testimonianze e studi raccolti dalla Banca d’Italia”
Laterza, 1986, pagg. 91-94

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Dagli scritti di Donato Menichella che vengono oggi resi integralmente pubblici si ha la ulteriore conferma che il risanamento bancario degli anni Trenta non fu affrontato solo con l’intento di dar corso a soluzioni tecnicamente migliori di quanto si fosse fatto nelle crisi precedenti. Esso fu affrontato con l’intento di compiere una profonda riforma, dando vita ad un complesso di norme, strumenti e istituzioni che configurano una vera e propria costituzione economica.

Le sue brevi e dense analisi, così come quelle di altri che operarono in quel periodo, sono ricche di considerazioni illuminanti su molti aspetti rilevanti del funzionamento dell’economia e della finanza e sulle relazioni causali tra fenomeni industriali, creditizi, monetari e valutari in situazioni di instabilità, prima o durante le crisi.

Mi pare però che la preoccupazione di fondo della sua analisi sia quella di mettere in luce le profonde disfunzioni che si erano manifestate nei rapporti tra banca e impresa e i conseguenti pro­cessi degenerativi che avevano preceduto le grandi crisi e avevano finito poi con l’amplificarne le conseguenze.

È esemplare la lucidità e la passione con cui viene descritto quel processo che vedeva, in una spirale di cause ed effetti, una cattiva allocazione delle risorse accompagnarsi ad una impropria distribuzione del potere e ad improprie imputazioni di costi.

Elemento caratteristico di quel processo era la circostanza che la proprietà e il comando dell’impresa divenivano disgiunti dal­l’esistenza e dalla immissione di mezzi propri nell’impresa stessa.

Le banche, consentendo e poi assecondando questo processo, finivano con il far svolgere al credito l’impropria funzione di surroga e non di semplice integrazione del capitale di rischio, alimentando con ciò stesso la degenerazione. Il fatto poi che, a quell’epoca, ciò fosse a sua volta assecondato dal rifinanziamento in base monetaria, consentiva l’ulteriore diffusione della crisi.

Emerge da queste analisi una coerente concezione sistematica. Se in una moderna economia per la realizzazione di investi­ menti di rischio è assolutamente indispensabile lo svolgimento delle funzioni imprenditoriali e, quindi, la connessa funzione di mobilitazione di risorse e di comando sul loro utilizzo, è però reciprocamente necessario che tale funzione trovi legittimazione in una effettiva messa a rischio di risorse effettivamente proprie.

È questa poi la condizione necessaria perché, senza distorsioni o squilibri eccessivi, possa concorrere al finanziamento delle im­prese che gestiscono attività di rischio anche il risparmio di quanti non intendono assumersi rischi diretti.

È cioè questa la condizione perché la più ampia espressione delle potenzialità di crescita e di accumulazione si possa conciliare con l’obbiettivo della tutela e della promozione del risparmio non di rischio.

Per realizzare questi obbiettivi, e questo mi sembra un aspetto essenziale delle analisi e delle opere di uomini come Menichella, non basta affidarsi ad un quadro di norme. Sarebbe questa una soluzione che rischierebbe di essere insufficiente, per scarsità, o, al contrario, troppo limitante per eccesso di regolamentazione.

Occorre anche la presenza di istituzioni, capaci non solo di controlli formali, ma anche di responsabile iniziativa, e non solo nell’ambito del sistema creditizio, ma anche al suo esterno.

Lo schema organizzativo, in tal senso concepito, non deve poi essere formato su modelli astratti, magari mutuato acriticamen­te da esperienze altrui, ma deve essere definito e modificato, in relazione alla concreta natura dei problemi dello sviluppo, nelle particolari contingenze storiche.

Norme opportune ed efficaci istituzioni trovano poi il comple­tamento necessario nei comportamenti coerenti di chi opera.

In questa concezione sistematica risulta evidente quale sia il comportamento richiesto all’azione del banchiere, di fronte al finanziamento dell’impresa: che egli negozi la concessione del credito in relazione agli apporti dei mezzi propri necessari, secondo la stima che egli fa del rischio che i programmi e le prospettive dell’impresa affidata possano risultare diversi da quelli previsti.

Sembra cioè essere propria del banchiere una sorta di indiretta funzione maieutica, volta a indurre l’afflusso di capitali di rischio alle imprese, per via extra-bancaria, ed è di conseguenza ovvio interesse del banchiere che il mercato dei capitali sia sviluppato, efficiente e tale da rendere agevole il ricorso diretto da parte delle imprese al capitale di rischio.

E la formazione di un adeguato mercato dei capitali era parte essenziale dello schema organizzativo che fu allora configurato; complemento importante di un disegno che non era soltanto di ordinamento dell’attività bancaria, ma di complessiva organizzazio­ne del finanziamento dello sviluppo e in particolare del finanzia­ mento dell’industria.

Va aggiunto che in questo più vasto disegno non ci si limitava a creare le premesse per un più corretto ed efficace rapporto banca-impresa. Con esso si dava nuova e più coerente chiarezza al rapporto banche-Stato, in particolare al rapporto banche pub­bliche-Stato. Con la creazione dell’ente di gestione delle partecipazioni statali e la sua trasformazione in ente permanente, così come, nell’immediato dopoguerra, con la creazione della Cassa per il Mezzogiorno (di cui Menichella fu l’ideatore) si è iniziato ad articolare un vasto sistema di strumenti di intervento diretto e indiretto dello Stato nell’industria, nelle forme proprie di un’e­conomia di mercato.

Con il dotare lo Stato di specifici strumenti per il persegui­mento di finalità pubbliche nell’economia, si realizzava anche nei fatti, oltre che nelle norme statutarie, una situazione coerente con l’obbiettivo che il .risparmio raccolto dalle istituzioni creditizie – private o pubbliche che fossero – non dovesse essere da queste utilizzato che per le finalità proprie e secondo i criteri propri dell’attività creditizia stessa.

Tale obiettivo era, invero, già chiaro nelle motivazioni e negli atti che avevano portato alla costituzione di importanti istituzioni creditizie pubbliche. Queste furono create in forma pubblica al solo scopo di evitare che il loro controllo cadesse in mano di interessi preoccupati non soltanto dell’efficiente gestione dell’isti­tuzione. Al di là di qualche fuorviante verbosità ideologica, rituale negli anni Trenta, fu questo lo spirito che animò non solo la formazione di istituzioni bancarie pubbliche ma anche l’opera dei loro amministratori; quello stesso spirito che ritroviamo espresso, in tutt’altro contesto, dallo stesso Menichella nel 1944.

Nello schema organizzativo delineato l’impresa bancaria pub­blica trova elementi di analogia, non con l’impresa nazionalizzata, ma piuttosto con la public corporation, dall’azionariato disperso.

Da ciò discende anche la consapevolezza che l’amministratore della banca pubblica trova legittimazione di sostanza alla sua funzione innanzitutto nella capacità imprenditoriale e manageriale che egli sa esprimere nel perseguimento delle finalità proprie dell’isti­tuto che è chiamato ad amministrare.

Ed anche a tal fine la figura di Menichella è fonte inesauribile di ispirazione.

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