Intervento di Paolo Baratta tenuto a Siena in occasione della giornata dedicata a Marcello de Cecco il 16 sett. 2016 nell’aula Franco Romani della Facoltà di Economia dell’Università di Siena

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Arrivai a Cambridge agli inizi del mese d’ottobre del 1963 e lì incontrai per la prima volta, nel mio stesso collegio (il Pembroke), Marcello, che era al suo secondo anno, e quindi già molto inserito nella comunità, nelle sue usanze e nelle sue stravaganze.

Non eravamo accademici in carriera; lui era laureato in giurisprudenza a Parma con successivi studi alla John’s Hopkins University di Bologna, io ero laureato in Ingegneria al Politecnico di Milano.

Lui era giunto a Cambridge su interessamento di Raffaele Mattioli, amico di famiglia per parte di padre, io su interessamento di Richard Stone, amico di famiglia per parte di madre. La via abruzzese, la sua, la via romagnola, la mia.

Condividevamo di quando in quando pranzi e cene e incontri alla Marshall Library, sia tra noi che con i diversi componenti la piccola colonia italiana presente (tutti economisti); la sera spesso ci si incontrava nella casa della dott.ssa Roughton, eccentrico medico, che in una grande villa “storica” situata in un viale dietro i collegi teneva una “open house” tutti i santi giorni in un salone al piano terreno foderato di legno con tappeti e divani un po’abbandonati al loro destino e dove su un grande tavolo tondo vari piatti e cestini esibivano pane, spesso raffermo, e pezzi di formaggio minimali e accarezzati spesso da velature verdi (luogo galeotto per il professor Mario Amendola che lì incontrerà la moglie Marilù, poi anch’essa professoressa)

Lo studio lasciava poco tempo a disposizione.

Io mi dotai di una bicicletta “Mercedes” proveniente dall’esercito di Sua Maestà, lui girava, privilegiato, su una NSU Prinz, a due porte, ma “con cambio Porsche” come non mancava di sottolineare.

Era un Inghilterra dalla vita varia, ricca e intensa, dove non era ancora estinto il dopoguerra e già era presente il futuro con i suoi “look back in anger”, e ancora si incontravano al mercato persone dall’aria molto modesta, che facevano piccoli acquisti ma che trasudavano orgoglioso spirito patriottico, mentre a loro fianco stavano con fare di sfida i giovani mod e rockers. Grande fu il giorno della visita dei Beatles.

Già a partire dall’anno seguente iniziammo a far vacanze estive insieme (a Ischia).

Nella Facoltà di economia la vita era palpitante. Erano presenti e attivi allievi e aiutanti di Keynes, Joan Robinson e Richard Kahn,e poi Nicholas Kaldor e Champernowne, insegnavano poi professori di orientamento marxista come Maurice Dobb, neoclassici come Meade, c’era Richard Goodwin che oltre a narrare del ciclo economico parlava della favolosa cantina di Peterhouse, di cui era responsabile, c’erano economisti applicati come EAG Robinson, Aleggiava nello sfondo (nel vero senso della parola con bicicletta e mantellina nera) la figura di Sraffa il cui testo “production of commodities by means of commodities” era apparso tre anni prima nel 1960, e che al Trinity riceveva ospiti italiani, mentre, responsabile della Biblioteca, lavorava alla ciclopica opera su Ricardo. Nel ‘63 usciva in America il famoso studio di Friedman e Schwartz sulla storia secolare monetaria degli USA. Lo scontro con la scuola di Chicago era ai massimi. Vennero ospitati a Cambridge economisti di scuola neoclassica (K. Arrow, R. Solow). Sia la Robinson che costoro quando gli uni citavano gli altri iniziavano la citazione con un lieve gesto di sopportazione e di invito alla tolleranza.

Marcello e io avevamo lo stesso Director of Studies. Quel Michael Posner che con Woolf, altro allievo del Pembroke, farà ricerche e scriverà sulle partecipazioni statali in Italia, allora tema di moda e oggetto di esplicita ammirazione come modalità per risolvere il problema della gestione dell’industria pubblica tenendola “at arm’s length” dal governo e dalla politica come aveva suggerito Morrison.

Tra i temi dominanti, in modo quasi ossessivo e sul quale tutti dovevano cimentarsi, vi era quello dell’economia inglese e dei suoi problemi del momento e della sua perdita di peso in un mondo che vedeva gli sconfitti della Seconda guerra mondiale superare i vincitori.

La quota delle esportazioni inglesi anno dopo anno diminuiva nel commercio mondiale. Il deficit esterno era ai massimi. La quota dei profitti sul reddito si era più che dimezzata.

Ci si interrogava sulla quotazione della sterlina nel dubbio che da molto tempo fosse sopravvalutata e sul peso del Commonwealth; da qui dibattiti a non finire sull’opportunità o meno di svalutare e sui benefici e conseguenze in generale dei mutamenti nei tassi di cambio, per non dire del regime di cambi flessibili.

Era sotto accusa il vecchio sistema di regolazione dei rapporti di lavoro. Preoccupava non solo il livello dei salari ma il cosiddetto “wage drift” cioè l’ammontare dei benefici a parità di salario di cui godevano i lavoratori inglesi (quante parole sulla famosa pausa per il the?)

Erano peraltro state sviluppate dal ’61 negoziazioni per l’adesione al Mercato Comune e proprio all’inizio del ’63 c’era già stato il veto di de Gaulle. Un veto che fece persino comodo viste le non convinte strategie britanniche.

Ricordo sul tema le battute con Marcello: sul fatto che i giornali locali avevano a suo tempo riportato a tutta pagina la preoccupazione della massaia britannica sul futuro del breakfast una volta che il burro europeo avesse a soppiantare l’adorato burro neozelandese.

L’economia inglese sperimentava tutte le forme di regolazione e su questi temi nasceva un profluvio di studi, ricerche e documenti ufficiali del governo; ce n’era per tutti; oltre alle politiche tradizionali di governo della moneta e della spesa pubblica, fiorivano in Inghilterra in quegli anni studi e maturavano esperienze su “industrial policy”, ” regional policy”, “incomes policy”

In questo grande crocevia di temi che allora era Cambridge non va poi dimenticato quello dell’economia internazionale, in particolare quello del sistema dei pagamenti internazionali. Era da tempo in sofferenza il sistema del gold exchange standard, già sotto critica per la inadeguatezza delle riserve e delle modalità con cui si formavano e crescevano. Da un lato De Gaulle propendeva per il ritorno al “gold standard” contro un sistema che avvantaggiava il paese la cui moneta era diventata moneta di riserva (agli inizi del ‘65 ordinerà di cambiare in oro tutti i dollari della Banca di Francia), Triffin per contro aveva già pubblicato le sue prime osservazioni che diverranno precise proposte di riforma per una moneta di riserva internazionale. Kaldor preparava la proposta di riserve in commodities. Aumentava però anche il ricorso al Fondo Monetario e la svolta avvenne proprio nel ‘65 con il FMI e il gruppo dei dieci che dichiararono giunto il momento di una revisione del sistema.

Inutile richiamare che l’argomento era di particolare interesse per Marcello.

Marcello conosceva l’inglese meglio di me. Non rinunciava anzi esibiva quella sua personalissima pronuncia che risuonava quale continuo forte contrappunto all’eloquio di quanti di noi si sforzavano di imitare il BBC english. Ma non mancava di compiere vere e proprie manovre d’aggiramento dall’alto nei nostri confronti: frequentava anche persone della Union Society e fu invitato a scrivere articoli sul loro giornale e che lui produsse in raffinato inglese persino un po’ snob: lasciandoci con un palmo di naso.

Qual’era l’atteggiamento di Marcello in questo crocevia, stavo per dire in questo festival permanente dell’economia. A quale scuola o dottrina aderiva? C’erano tutte e noi si aveva solo l’imbarazzo della scelta.

Marcello non citava frequentemente i suoi maestri come alcuni sono soliti fare nella tradizione accademica. Un solo nome ricorreva nelle conversazioni citato con reverenza, quello di Federico Caffè. Era una ammirazione devota che trascendeva gli aspetti legati alla teoria economica. Ammirava con rispetto Sylos Labini.

Ma al di là di queste citazioni Marcello non pareva interessato ad esser qualificato come aderente a questa o quella scuola di pensiero. Le voleva conoscere e le osservava tutte con attenzione e distacco ad un tempo.

Fin da quegli anni si affidava alla sua intelligenza per evidenziare semmai le insufficienti conclusioni di ogni scuola di fronte alla realtà storica. In linea generale si può dire che avesse chiaro e tenesse per fermo che nessuna teoria è per cosi dire neutrale, e che ogni teoria doveva considerarsi anche come figlia del suo tempo o meglio ancora figlia coerente rispetto a interessi egemonici e a poteri che in essa trovavano la loro più compiuta legittimazione formale (grazie anche a non poche ipocrisie che però andavano smascherate). La geografia del potere aiuta a chiarire non solo le ragioni della posizione preminente di scuole di pensiero e modelli interpretativi ma anche gli scarti tra teoria e realtà e quindi il grado di mimesi degli interessi e del potere stesso, mimesi da smascherare appunto.

Non c’era incontro e seminario su qualsivoglia tema nel quale non risuonasse alto il suo richiamo “ma non avete considerato il quadro internazionale !!” quello degli interessi politico-strategici.

Gli fui grato fin da subito per questi smascheramenti, io neofita entusiasta.

In questo era certamente buon economista, nel senso che viveva bene la contraddizione fondamentale della disciplina economica, la quale vuol giungere a descrivere il mondo come luogo di un possibile equilibrato sistema di forze attrattive, secondo il modello della teoria gravitazionale per le masse passive, ma che non può prescindere dagli istinti di dominio e possesso che sono anche il motore primo del suo funzionamento e del suo progredire.

Era però di conseguenza anche un buono storico. Già in quegli anni era chiaro che la storia e il suo studio avrebbero offerto le chiavi per la comprensione più completa degli svolgimenti e anche delle teorie.

Ma anche qui sia ben chiaro la storia come progresso non la storia come magnifiche sorti e progressive. Quante dispute al riguardo sul concetto di progresso!

Mi son chiesto a chi dunque faceva capo in questo suo modo di essere pensatore; mi verrebbe spontaneo di richiamare il nome di Giambattista Vico ma non voglio forzare oltre.

Nasceva da questo suo modo di pensare anche una certa propensione ad attribuire importanza alle azioni e non solo alle sistemazioni teoretiche e quindi a vedere e apprezzare la sistematicità anche negli atti e nei comportamenti di figure responsabili che costruiscono istituzioni e che l’economia la fanno e che la storia, per quanto possibile, ciascuno nel suo piccolo, la assecondano (le qualificava con enfasi, quelli che sanno “come và il fatto”).

Forse anche per questo il nostro sodalizio lungo tutti questi 52 anni è stato così genuino e costante.

Anni dopo sempre all’interno del Pembroke celebrammo il matrimonio tra Marcello e Giulia, e neppure dall’amicizia con lei ci siamo più separati.

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