Quaderni del Circolo Rosselli
n.3 del 2021

Tavola rotonda “Socialismo Liberale oggi”

Firenze Circolo Rosselli, 9 giugno 2021

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Nella giornata celebrativa dedicata al socialismo liberale vorrei sottolineare che i tanti che possono essere ricondotti a questa corrente di pensiero ci sollecitarono sempre ad avere grande attenzione alle energie vitali dei soggetti che compongono la società e ad un tempo a sviluppare un grande impegno e una grande capacità della società nella produzione di beni pubblici. Beni pubblici sono necessari a complemento di quelli prodotti dall’iniziativa individuale e privata, altri sono necessari quali correttivi delle sue inadeguatezze, e altri ancora quali necessari stimoli per mantenerla vivace e intraprendente.

Occorre costantemente conciliare gli animal spirits nel privato e un vigoroso impegno nel pubblico. E poiché non ci si deve affidare ad automatismi o a sviluppi meccanici della storia, è sempre indispensabile che la società abbia grande consapevolezza della natura dei suoi problemi e delle varie modalità con cui affrontarli.

Vengo al tempo presente e riparto dal punto in cui ci siamo lasciati nell’ultimo webinar con una lettura del cosiddetto Next-Generation-Plan, inteso come programma europeo complessivo.

In Italia lo abbiamo letto come iniziativa di soccorso e solidarietà in armonia con l’atteggiamento che, ahimè, gli italiani hanno sviluppato verso l’Europa nel corso degli ultimi anni. Da tempo ci comportiamo meno come partner e un poco più come sudditi invocanti la clemenza del sovrano. E ci siamo rallegrati, quando l’Europa ha annunciato le nuove misure: l’Europa delle costrizioni, si è trasformata nell’Europa delle elargizioni!

Certo, il Next-Generation-Plan ci è apparso una sorta di vittoria della solidarietà rispetto alla fedeltà alle regole ferree degli equilibri di bilancio. C’è il rischio però di qualche strabismo, quando invece occorre la massima lucidità, che oggi ci suggerisce di leggere questo programma secondo un angolo diverso.

Si tratta infatti di un programma unitario europeo di spese pubbliche orientate, adottato contestualmente da tutti i Paesi europei. Riguarda tutti e non solo quelli bisognosi di aiuto. Anche i cosiddetti virtuosi, per alcuni dei quali accendere quei prestiti, è persino costoso!

La componente di solidarietà è certamente presente ma per poterla innestare in sede comunitaria la si è dovuta integrare in un nuovo intervento più complesso riguardante l’Europa e il suo futuro. Il Next-Generation-Plan è una novità per tre motivi: non solo per i trasferimenti netti che concede a favore dei paesi deboli, non solo perché rappresenta una manovra finanziaria con la quale si introduce un inizio di fiscalità europea, ma anche perché con esso si orienta la domanda pubblica dell’Europa verso determinati obiettivi: Europa Verde, Europa Digitale. E non si tratta di obiettivi secondari, bensì strategici che comporteranno trasformazioni profonde. Si annuncia una sorta di riarmo europeo verso nuovi destini?

L’Europa dà vita ad un bene pubblico ulteriore rispetto alla promozione della domanda globale e mira a favorire le decisioni degli investitori di tutti i suoi membri, nella direzione indicata dal programma dell’intervento comune.

L’Europa, costruita sull’accettazione del mercato come principale regolatore e avendo a fondamento l’equilibrio nei bilanci dei singoli Paesi, per la prima volta manifesta la volontà di voler promuovere con selettività il proprio sviluppo tecnologico, con un intervento che interessa tutti i partners.

Il mercato bene pubblico primario da promuovere con azioni coordinate, la domanda globale bene pubblico secondario da promuovere con misure straordinarie, la promozione selettiva, bene pubblico di terzo grado da generare con un atteggiamento più dirigistico.

Contemporaneamente si discute per la prima volta a livello mondiale dell’adozione di criteri comuni per rendere i sistemi fiscali meglio coordinati rispetto alle scelte di localizzazione degli investitori globali.

Mentre è probabile che il ripristino nel commercio mondiale di regole ispirate al multilateralismo dopo gli sbandamenti degli ultimi anni potrà comportare transitori passaggi intesi al rafforzamento delle posizioni delle singole economie e stimolerà così l’Europa una volta di più ad intervenire sui suoi destini, tecnologici e industriali.

Sarà richiesto equilibrio e saggezza, non virate ideologiche.

E noi dobbiamo chiederci: cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo attrezzarci? Noi non possiamo interpretare questa manovra come quella nella quale ci vien data una mano per continuare a galleggiare restando l’ultima ruota del carro europeo come accade da più di un decennio.

Siamo il Paese europeo con il massimo indebitamento rapportato al PIL ma, cosa ben più grave, con il più basso tasso di crescita, che in realtà si è fatta declino nei decenni passati. E saremo ancor più indebitati di prima.

L’Italia deve uscire da questo tunnel anche grazie al Pnrr incamminandosi verso un percorso diverso, molto diverso. Dovremo procedere con un tasso di crescita superiore al tasso con cui potrà crescere ancora il debito pubblico e possibilmente un tasso di crescita superiore a quello medio europeo, per arrestare la deriva e ripristinare la tanto conclamata convergenza delle economie quale obbiettivo della comunità e dell’unione monetaria (un altro bene pubblico).

Per farlo non sarà sufficiente collocarci in una posizione ancillare rispetto agli sviluppi europei. L’Italia dovrà sviluppare attività e iniziative nuove che un po’ dovranno disturbare con la loro competizione la stessa Europa.

Il paradosso dell’attuale situazione è che l’Europa ci chiede di fare delle riforme che sono tutte intese ad accrescere la nostra competitività anche all’interno dell’economia dell’unione. L’Europa non ci chiede in cambio se non il ripristino di una piena nostra sovranità sul nostro sviluppo.

Ma sono quelle risorse e quelle riforme sufficienti ad attivare questo nuovo percorso.

E noi cosa pensiamo? È stupefacente la superficialità con cui la classe politica e l’opinione generale evitano queste questioni. Si parla di tutto ma non di questo. Si fanno facili esercizi di autostima con frasi consolatorie (la ripartenza dell’Italia, la riconquista del nostro futuro), parole d’ordine che rimandano a tempi andati per la loro vacuità e mancanza di correlazione con fatti concreti.

E torniamo a dire: per l’Italia non si tratta di una “ripresa” ma del passaggio da mancanza di sviluppo (anzi declino) a una fase di sviluppo sostenuto; quali gli strumenti e quali le condizioni per ottenere questo risultato?

La nostra economia si caratterizza per un netto dualismo: più di tre milioni di soggetti in età di lavoro neppure si dichiarano appartenenti alla categoria di lavoratori, e si tratta di una quota di popolazione fortemente caratterizzata per distribuzione territoriale, per genere e per età. In più siamo in declino demografico.

Siamo di fronte a problemi che si usavano definire strutturali, di fronte ai quali dovremmo sviluppare consapevolezza e conoscenza, consapevolezza di quello che ripartenza significa per noi e delle implicazioni che questi obbiettivi straordinari possono comportare.

Viviamo uno di quei momenti nei quali dovrebbe esservi almeno un riferimento o delle ipotesi sul nostro futuro sulle quali misurarci. In altri tempi in situazione analoga si produsse il piano Vanoni, che quanto meno offriva un complesso di previsioni coerenti, grazie al quale si poteva misurare la fondatezza delle opinioni delle proposte e delle misure.

È possibile mai che noi avviamo una nuova fase di sviluppo affidandoci a un vago laissez faire?

Tutto sembra indicare che il governo dell’economia abbia bisogno di grande selettività nelle misure di politica economica, a partire dai difficili passaggi che ci attendono quando si parlerà del ripristino di regole europee circa la finanza pubblica. È auspicabile che sia promossa una politica fiscale più coordinata e integrata in sede europea, ma ciò non significherà certo maggior lassismo.

Il sentiero sarà stretto: sugli aiuti di stato ci saranno maggiori attenzioni.

Dovremo poter contare su una particolare vivacità dei soggetti componenti l’economia e non solo di quelli. In generale dovrà essere all’opera una maggior imprenditorialità che nel caso delle strutture pubbliche vuol dire una maggior progettualità.

La politica economica assume significati ben più ampi rispetto alla somma della politica di bilancio e le manovre sulla moneta o sul tasso di interesse (oggi fuori uso). La politica economica si dovrà manifestare in vari settori con interventi atti ad accrescere la capacità di produrre beni pubblici, nelle diverse ramificazioni dell’azione pubblica.

Veniamo da anni nei quali non abbiamo sempre dato l’idea di essere originali creatori di condizioni e forme nuove di gestione dell’azione pubblica.

Alle modifiche introdotte nel nostro sistema a seguito dell’adesione al mercato unico non abbiamo fatto seguire aggiustamenti e azioni riformatrici conseguenti.

Negli anni nei quali si formò il mercato unico ben pochi provvedimenti furono portati in parlamento, frutto di originali elaborazioni. Il parlamento procedeva all’esame e all’approvazione se si dimostrava che il provvedimento presentato era imposto dalle direttive europee, ma scarsamente era cimentato su quello che era necessario fare a seguito dell’introduzione di quelle direttive e alle modifiche agli ordinamenti che esse introducevano.

Abbiamo sofferto non solo per la mancanza di questa o quella riforma, ma piuttosto della carenza di spirito riformatore.

E non sarà con questa o quella riforma che riprenderemo il cammino ma con l’avvio di nuovo impegno a rivedere e riformare gli strumenti dell’azione pubblica, avendo a riferimento l’obbiettivo di rendere questi strumenti più capaci di svolgere con cura le loro missioni e di adattarsi, attrezzandosi, alle diverse necessità. E ciò sia che si tratti di stazioni appaltanti opere e servizi pubblici o delle università e della loro capacità di contribuire alla ricerca.

Per questo penso che sia insufficiente porre il problema dell’efficienza nella pubblica amministrazione facendo riferimento ancora una volta solo ai procedimenti amministrativi, quando sono necessarie riforme più organiche riguardanti il modo di operare delle strutture amministrative.

Così dobbiamo essere più prudenti quando invochiamo ad esempio autogoverno o decentramento come le soluzioni più adatte. Troppo spesso per queste vie si sono offerte occasioni perché nel governo di istituzioni prevalessero proprio gli interessi che dovevano essere da esse governati.

Europa verde e Europa digitale sono obbiettivi comuni, il loro perseguimento sarà certo assai più complesso della loro enunciazione.

Purtuttavia è positivo che si formulino obiettivi di lungo periodo.

Il mercato è un grande regolatore ma di per sé la fiducia nel mercato non basta a suscitare interesse e voti maggioritari per la produzione di beni pubblici che sono ad esso complementari e necessari per assicurare compatibilità tra diversi fini.

E la produzione di beni pubblici può soffrire anch’essa di indifferenza e per atteggiamenti e forze antagonistiche.

Come Keynes ci ha insegnato, la catena delle relazioni di causa ed effetto tra incentivi economici e azioni conseguenti può interrompersi laddove si tratta di decidere per il domani, e una domanda pubblica aggiuntiva soltanto può ripristinare lo stimolo ad assumere rischi. Analogo teorema ci ha insegnato Mancur Olson per quanto riguarda la produzione di beni pubblici, per i quali maturare consenso è facile se si tratta di beni interessanti un piccolo numero di soggetti, ed è sempre più difficile mano a mano che il bene interessa più vaste comunità. Perché questi beni possano essere creati occorre la comune adesione a obbiettivi più vasti che possano trascinare il languente consenso. Anche qui occorre qualcosa che attivi animal spirits.

E qui torniamo a Rosselli che aveva affrontato con lucido esame la questione della necessità di atti volontari di fronte alla grande imperfezione dei meccanismi che regolano i comportamenti.

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