di Paolo Baratta
intervento nel seminario organizzato dalla Fondazione Adriano Olivetti, 1987
In “L’Autonomia delle Banche centrali” a cura di Donato Masciandro e Sergio Ristuccia. Fondazione Adriano Olivetti. Edizioni Comunità, 1988, pagg.256-259

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Nella relazione del professor Nardozzi viene descritto il «sistema» definito nel 1936 ed elencati i ruoli attribuiti alle singole categorie di intermediari. In particolare sembra sostenersi che la specificità degli istituti di credito a medio ter mine, creati tra le due guerre, stesse nella loro natura di strumenti dell’intervento pubblico nell’economia. Essi sarebbero dunque figli di quella concezione «statalistica» che qualche volta viene attribuita, ma non sempre a proposito, ai protagonisti dell’epoca, sia a quelli che crearono nuove istituzioni sia a quelli che ispirarono la costruzione normativa.
Su questo punto mi pare necessaria qualche puntualizzazione. Non è propriamente vero che gli istituti speciali fossero stati concepiti quali «strumenti dell’intervento pubblico». Se con ciò in tendiamo in­ fatti enti il cui fine è quello di realizzare iniziative a carico della spesa pubblica o quello di agevolare o indirizzar e gli investimenti privati possiamo riconoscere che l’Iri, oppure nel dopoguerra la Cassa per il Mezzogiorno, fossero tali. Tali non paiono invece né il Crediop né l’Icipu, né l’Imi, e cioè i tre istituti che (oltre al Credito navale, gestito allora dal Crediop e successivamente passato all’lmi) esistevano al momento in cui fu attuata la legge nel 1936.
Né trasferimenti di risorse si realizzavano con essi, né con essi fu favorita questa piuttosto che quella iniziativa per volontà del governo, né ad essi fu affidato un compito che altri non potessero assolvere (il finanziamento a medio termine).
La novità essenziale rappresentata dalla loro costituzione non stava nel che cosa veniva finanziato ma nel come. Si trattò cioè di organismi che innovarono le modalità della intermediazione e non di organismi il cui scopo fosse diverso dalla attività di intermediazione bancaria.
Siffatti soggetti avrebbero effettuato attività creditizia a medio e lungo con – e qui sta la novità – provvista obbligazionaria; cioè, non intermediando direttamente depositi come le aziende di credito, ma emettendo sul mercato finanziario titoli obbligazionari. Loro funzione essenziale fu dunque quella di concorrere in misura decisiva allo sviluppo del mercato finanziario.
Questo era in Italia quanto mai ristretto, se si escludono i titoli di Stato, per i quali le emissioni nette caddero drasticamente dopo il risanamento del 1924. Assai limitato era il mercato azionario, quanto mai ristretto quello delle obbligazioni emesse direttamente dalle imprese.
Una sorta di falso mercato finanziario andava intanto assumendo crescente dimensione; era quello degli impegni cartolari delle imprese in crisi, sottoscritti o scontati dalle banche, e che, a loro volta, direttamente o indirettamente, tramite società finanziarie costituite ad hoc, venivano presentati al risconto presso la banca centrale. Una crescente montagna di impegni cartolari veniva di fatto finanziata tramite la creazione di moneta trasformando la banca centrale indirettamente in holding del sistema industriale, e per di più di quello maggiormente colpito dalla crisi. Questo processo, si ricordi, era iniziato già con la prima guerra mondiale e aveva assunto sviluppi significativi dopo la guerra, con l’attività del Consorzio di sovvenzioni su valori industriali.
I riformatori già da tempo avevano sotto gli occhi questa realtà. La loro preoccupazione, ancora prima che la definizione di una nuova norma ordinatrice (quale quella del 1936), fu quella di dar vita, quali imprenditori pubblici, alla creazione di nuovi organismi speciali il cui compito appunto era quello di trasformare gli impegni a più lungo termine (e quindi più rischiosi) che l’economia andava assumendo, in titoli di mercato finanziario. L’obiettivo fu quello di costruire un mercato finanziario vero e sano. I patrimoni di questi istituti avrebbero concorso, quale ulteriore tutela per i sottoscrittori di obbligazioni, a favorire il buon accoglimento dei titoli; le emissioni in massa avrebbero dato vita ad un ampio mercato di questi titoli, a differenza di quanto si verificava per i titoli emessi dalle singole imprese («titoli dei quali non si trova venditore quando li si vuol comprare e non si trova compratore quando li si vuol vendere»).
Dobbiamo concludere che l’obiettivo fu in gran parte raggiunto, se poniamo mente alla crescita davvero stupefacente delle obbligazioni in circolazione tra la prima e la seconda guerra mondiale; e se ricordiamo la dimensione e il ruolo del mercato obbligazionario per tutti i decenni del secondo dopoguerra, in un periodo in cui ancora il mercato azionario restava modesta fonte di finanziamento per le imprese.
Ho già avuto modo di sottolineare in altre occasioni che se una concezione «dirigistica» si può identificare, per quanto riguarda il ruolo degli istituti speciali, la si può riconoscere negli indirizzi che prevalsero negli anni cinquanta e sessanta, piuttosto che nel 1936, quando il collegamento tra promozione degli investimenti industriali e agevolazione pubblica fu definito legislativamente su vasta scala, e fu affidato agli istituti speciali il compito di finanziare lo sviluppo agevolato dalla mano pubblica. Il mercato obbligazionario in tutta questa fase in parte supplì alla carenza del mercato dei capitali di rischio.
L’insufficiente sviluppo di quest’ultimo fu in realtà l’anello non compiuto della riforma del 1936. Tale riforma infatti, ispirata ad un obiettivo di stabilità che richiedeva una limitazione della funzione delle banche nel finanziamento dell’industria, esigeva per completezza lo sviluppo di un dinamico mercato dei capitali, ove le imprese avrebbero potuto reperire i finanziamenti di rischio ai quali appunto non dovevano più, nel nuovo ordinamento, concorrere le banche.
Tale completamento non fu raggiunto.
Si è detto che il mercato obbligazionario supplì in parte: occorre anche aggiungere che l’esigenza di un ampio mercato di capitali fu meno avvertita, nel periodo del cosiddetto «mira colo», in cui alti tassi di profitto consentirono un elevato grado di autofinanziamento dell’industria.
Ma non fu certo un caso se negli anni settanta, al manifestarsi della crisi, da un lato le banche si trovarono di nuovo con forti immobilizzi e, dall’altro, si ebbero grosse ripercussioni negli istituti speciali, che avevano finanziato a medio tre mine urgenti programmi di investimento di imprese non assistite da adeguati mezzi propri e capitali di rischio.
Il mancato sviluppo di un vasto mercato del capitale di rischio rendeva a sua volta essenziale il mantenimento di un elevato grado di autofinanziamento da parte delle industri e perché fossero salvaguardati
obiettivi di stabilità. Il professor Nardozzi al riguardo analizza molto bene nella sua relazione la preoccupazione della Banca d’Italia a fronte del calo del tasso di profitto negli anni settanta.
Più in generale, comunque, il mancato sviluppo di un adeguato mercato finanziario del capitale di rischio ridava un ruolo decisivo al sistema bancario e, in ultima analisi, alla banca centrale. Assistemmo a questo riguardo nei decenni successivi al dopoguerra a quella che potremmo definire una sorta di contro-riforma rispetto alla «riforma» del 1936.
Questa partiva dalla viva preoccupazione di non vedere più la banca centrale coinvolta indirettamente nel finanziamento degli immobilizzi industriali, preoccupazione che nasceva dalla consapevolezza che punto culminante della crisi degli anni trenta era appunto stato quello del ritrovarsi la banca centra le imponente «holding» di un vasto sistema industriale.
Non potendo completamente far affidamento su un vasto mercato finanziario per la formazione del capitale di rischio delle imprese (condizione basilare della separazione dei ruoli), restando ancora il circuito bancario il principale canale di finanziamento delle imprese, la banca centrale sviluppò una concezione particolare che la portò, per meglio tutelare gli equilibri, ad avere una enorme influenza sulle banche, sulla loro gestione, sui loro comportamenti.
Si rafforzò una concezione, cioè, che vedeva la Banca d’Italia, per evitare di ritrovarsi holding di imprese industriali, farsi in un certo senso holding del sistema bancario, per un più stretto controllo su di esso. Per molti esperti il prestatore di ultima istanza si faceva amministratore delegato indiretto.
Ulteriori approfondimenti degli sviluppi degli anni sessanta e settanta potrebbero aiutare a illuminare meglio questi svolgimenti, che qui non si possono che sintetizzare sommariamente; così come potrebbe risultare assai meglio approfondito il significato di alcuni eventi successivi: ad esempio, il rifiuto ad accogliere quella proposta che fu fatta negli anni settanta, di fronte alla crisi e all’elevato grado di indebitamento bancario delle imprese, di consentire alle banche la trasformazione di parte di questi crediti in capitale di rischio. Da questi approfondimenti potrebbe emergere una più compiuta storia delle idee circa il ruolo della banca centrale.
Il prepotente sviluppo di un mercato di titoli finanziari registratosi negli ultimi anni ha trovato l’Italia del tutto impreparata. L’assenza di leggi, di norme, di istituzioni, necessarie al perseguimento degli obiettivi di trasparenza e stabilità, è risultata drammatica.
Emerge evidente il mancato compimento del quadro normativo del 1936. L’evidenza sta tutta in quell’art. 104 della stessa legge bancaria che testualmente recita: «Con decreto del presidente della Repubblica su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, sentito il Comitato interministeriale, sarà provveduto alla raccolta, in Testo unico, delle disposizioni riguardanti la materia della difesa del risparmio e della disciplina della funzione creditizia».
Orbene quel testo unico non fu mai redatto. Solo oggi a metà degli anni ottanta si pone mano a questo problema. E in un certo senso la ripresa e il completamento della riforma.

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