Firenze, 31 marzo 2017

Discorso pronunciato da Paolo Baratta al primo G7 dei Ministri della Cultura (Firenze, 30-31 marzo 2017). Nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio Paolo Baratta si è confrontato pubblicamente con i sei rappresentanti scelti da ogni Paese del G7: Simon Brault (Director and CEO, Council for the Arts) Canada; Sir Ciaran Devane (Chief Executive of the British Council) Regno Unito; Yuko Hasegawa (Chief Curator of the Museum of Contemporary Art Tokyo) Giappone; Shermin Langhoff (Artistic Director of the Maxim Gorki Theatre di Berlino) Germania; Serge Lasvignes (Presidente del Centre Pompidou) Francia.

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Cultura come “vita activa”

Come è noto la parola cultura può assumere un gran numero di significati: a un estremo può essere utilizzata per indicare ricchezze e tradizioni identitarie, battute dal vento dell’avanzata delle tecnologie, dell’economia e delle città, vento che soffia forte in epoca di globalizzazione e, da un altro estremo, può essere utilizzata per indicare fenomeni appartenenti alla “vita activa” di uomini e istituzioni nel tempo presente, nel contemporaneo.

Oggi sono qui presenti personalità che rappresentano a vario titolo istituzioni operanti nella “vita activa” del presente, istituzioni che credo tutte hanno tra le proprie finalità quella della promozione del dialogo e la cui esperienza ci può dare utili indicazioni su quali binari debba correre il dialogo internazionale promosso da e con la cultura, e i principi cui attenersi (e le parole che meglio li indicano).

Apertura e riconoscimento

Parto dall’esperienza della Biennale. Le nostre mostre e le nostre rassegne (arte, architettura, teatro, danza, musica e cinema) sono internazionali e aperte, così come lo sono le nostre iniziative di Biennale College.

Nel caso di Arte e di Architettura la nostra mostra aperta è affiancata da presenze organizzate autonomamente dai paesi partecipanti (quest’anno ben 85); abbiamo non solo conservato, ma fatta nostra in chiave rinnovata la presenza dei padiglioni.

I paesi partecipano per loro scelta, senza che vi sia da parte nostra alcuna azione di promozione. La scelta di esserci è da ricondurre al desiderio del mondo dell’arte o dell’architettura di quei paesi di essere parte attiva del dialogo.

(Ammettiamo anche mostre collaterali presentate da comunità che non si riconoscono negli stati nazionali).

Non siamo sede di legittimazione di questa o quella tendenza artistica.

Si rinnova così ogni anno un fatto importante: il riconoscimento dell’esistenza e della dignità della vita culturale di chi partecipa con noi, indipendentemente dalla caratura economica e politica del partecipante

Il riconoscimento è la premessa del dialogo, ma il lavorare insieme è già evoluzione del dialogo in impegno condiviso.

Azione comune

Lavorare insieme. Non siamo un mercato dell’arte, né una fiera di architetti, né un luogo per soli esperti; abbiamo il pubblico come primo riferimento e quindi l’attivazione del dialogo e dell’incontro tra il pubblico, l’arte e l’architettura come scopo (che si estende a musica teatro e danza).

Di fatto stiamo partecipando a un’azione comune: che non è solo diffusione della conoscenza ma un’azione che si svolge lungo una linea di battaglia che passa attraverso tutti i nostri paesi: la battaglia contro l’indifferenza e il conformismo, nei cui confronti la cultura deve costantemente rinnovare la propria azione conflittuale.

Gettiamo ponti tra paesi, ma per gettare insieme ponti tra i cittadini, le arti e l’architettura.

Accesso e Desiderio

Siamo percepiti come macchine per favorire l’accesso, ma dobbiamo operare come “macchine del desiderio”:

  1. sostenere il desiderio di arte, ovvero il desiderio di espandere il nostro occhio e di dilatare la nostra mente verso i mondi che gli artisti ci offrono e che sono parte della nostra realtà espansa;
  2. far costantemente riemergere il desiderio di scoprire che è possibile porre domande all’architettura, la più politica delle arti, quella che tratta del nostro io espanso nello spazio pubblico, che creiamo creando il riparo della vita

In queste azioni sta anche il raccordo tra heritage e contemporaneità. La nostra cura dell’heritage rischierebbe di essere fenomeno parziale se non mostrassimo di essere desiderosi di veder anche oggi la nostra esistenza accompagnata e stimolata dall’operare degli artisti del nostro tempo, come generosi compagni di viaggio, se cioè non sapessimo riconoscere il ruolo dell’arte nella nostra vita contemporanea, così come accadde ai tempi in cui l’heritage fu creato, se non sapessimo porre domande all’architettura come seppero fare quelli che ci precedettero.

E quello dell’architettura è un tema sul quale possono essere sollecitati dialoghi e confronti, come dimostrano anche nostre iniziative recenti; il mondo è ansioso di esempi nei quali domande ben poste all’architettura e alla riqualificazione urbana, hanno ottenuto risultati anche nelle condizioni più diverse ed estreme, così frequenti nel pianeta.

Fiducia

Il Dialogo ha come premessa il riconoscimento dell’altro e della sua dignità, ma poi per svolgersi ha bisogno di un clima di fiducia. Questo è vero nel dialogo internazionale e lo è tanto più nell’operare di una istituzione culturale; la costruzione di rapporti di fiducia rappresenta l’obbiettivo principale generale di una istituzione culturale che proprio per questo ha bisogno di essere, e di essere percepita, come autonoma e generosa, non come instrumentum regni, né come instrumentum pecuniae.

Anche noi istituzioni dobbiamo essere oggetto di un “riconoscimento” da parte del resto del mondo se vogliamo essere utili al dialogo: da parte di chi viene a visitarci, ma anche di chi sta a casa, ma percepisce e condivide il sentimento dell’utilità della nostra esistenza e della nostra azione.

La “nuova alleanza” sull’heritage

Abbiamo detto: ‘riconoscimento come premessa del dialogo in campo culturale’. Recenti atti internazionali relativi alla tutela dell’heritage mi sembrano molto importanti proprio perché partono da questo principio e rafforzano questo indirizzo.

La risoluzione dell’ONU, pur partendo dai crimini compiuti in zone di guerra e dai pericoli di finanziamento delle attività terroristiche è, di fatto, un riconoscimento della dignità e del valore dell’heritage in tutti i paesi. Le azioni dirette nell’ambito Unesco, o quelle che sono impegnante nel raccogliere fondi sono a loro volta un messaggio chiaro di riconoscimento.

Esse confermano il principio che il dialogo sulla cultura si sostanzia innanzitutto nell’aiutare la cultura altrui.

E a me fa molto piacere vedere che l’Italia, che in alcuni momenti è stata accusata di una visione troppo patrimoniale del proprio vasto heritage, sappia partecipare al grande dialogo mettendo a disposizione la sua esperienza attiva che è fatta di: a) accumulo di conoscenza; b) un complesso di norme; c) un’amministrazione dedita alla tutela e valorizzazione, il tutto vero patrimonio del presente, manifestazione della “vita activadel presente e patrimonio maturato su quello ereditato. Il che è confermato dai propositi annunciati di dar vita a istituzioni formative a livello avanzato.

Cultura e cultura politica ed economica

Oggi è diffusa (e forse lo è sempre stata) la strumentalizzazione della “cultura” e della difesa culturale allo scopo di accentuare conflitti, che traggono origine da situazioni di emarginazione o da cause di natura politica o economica, oppure comunque per creare climi politici tesi e propensi a drammatizzazioni e quindi, infine, per ottenere un “abbassamento” della qualità della cultura politica ed economica.

Dobbiamo essere consapevoli che le azioni in campo “culturale” possono restare al livello delle azioni simboliche, se non accompagnate da azioni politiche volte alla conferma dei diritti civili e politici e da coraggiose azioni economiche, volte a favorire una redistribuzione delle possibilità di sviluppo, a eliminare cioè alla base la ragione della emarginazione, indispensabile momento questo per una vera azione di riconoscimento.

Un aneddoto: dopo il contributo dato in guerra dagli USA, arrivò il Piano Marshall nel 1947; in quegli stessi giorni Peggy Guggenheim a Venezia decideva di portare alla Biennale la sua collezione: arrivavano i fondi ERP ma anche Jackson Pollock, si diffondeva il cinema di Hollywood ma anche, in piena autonomia, la meravigliosa stagione del cinema italiano.

Il modello del dialogo è un modello che accoglie in sé quello di evoluzione. Il principio che mi pare corretto è che tutti siamo in via di modernizzazione, senza la pretesa che qualcuno rappresenti il moderno perfetto e definitivo.

Conoscenza reciproca ottenuta da azioni comuni sul presente

Nell’incontro tra paesi tenutosi a Milano, Umberto Eco confermò essere la conoscenza reciproca viatico importante per un clima di pace e cooperazione.

Possiamo oggi integrare questa considerazione. La conoscenza reciproca che ci serve è quella che matura facendo tratti di strada insieme, sviluppando desideri comuni e azioni comuni per arricchire il nostro presente.

Una possibile proposta della Biennale

A seguito dei documenti approvati in sede di Nazioni Unite dovranno essere svolte ricognizioni di realtà e di terminologie.

La Biennale potrebbe organizzare nel prossimo anno, e come appuntamento ricorrente nel corso della Biennale dedicata all’architettura, un incontro (due giornate) che veda anche operatori politici di vari paesi, ove si dia conto delle esperienze compiute nel considerare l’heritage nelle azioni di governo del territorio e di urban planning e, infine, negli sviluppi dell’architettura contemporanea. L’incontro con la realtà “fisica” potrà essere di grande aiuto sia per illustrare risultati sia per comprendere meglio il significato attribuito nella prassi dei vari paesi al termine heritage.

Paolo Baratta, Presidente della Biennale di Venezia

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