Relazione alla IV conferenza nazionale dell’AICI – Associazione delle istituzioni di cultura italiane “Italia è cultura, la cultura e l’identità europea” – Trieste, 22 sett. 2017)

Documento PDF


Cultura e sviluppo: una visione semplicistica

La parola cultura viene evocata sempre più di frequente, ricomprendendo in essa i fenomeni più disparati. La dilatazione dei confini del suo significato è stata cosi ampia da suggerire persino prudenza nell’usarla, per la possibilità di equivoci e fraintendimenti (per esempio non esitiamo a includere in essa fenomeni che in altri tempi avremmo ricondotto allo “stile di vita”, all’”uso del tempo libero” ecc. ecc.).

Non è secondario a questa dilatazione il fatto che negli ultimi anni si parli di nuovo di cultura per la possibile relazione tra cultura e il potenziale di sviluppo di una società e di una economia. Tema complesso davvero e che porterebbe a ragionar di medio termine. Ma noi, un po’ smarriti di fronte alle difficoltà del presente, abbiamo sentito il bisogno di ricette e di balsami possibilmente alla portata e di pronto effetto. E tutti a parlar di cultura e a scoprir la cultura mescolando ingredienti assai eterogenei, e utilizzando metafore metal meccaniche o chimiche per indicare la sua importanza e il suo ruolo (il volano, il petrolio ecc.).

Alla ricerca di rimedi alla stagnazione economica, ci siamo compiaciuti ad esempio di avere a portata di mano un grande patrimonio architettonico e artistico ereditato dal passato, potenziale procacciatore di rendite di vario tipo, un vero vaso di pandora per rendite anche turistiche. Salvo scoprire che il turismo può giungere proprio nelle città d’arte ad eccessi deformanti le realtà urbane più fragili, deformazioni di fronte alle quali non abbiamo identificato contromisure.

Abbiamo poi con compiacimento attribuito sempre più vasti confini alla “cultura” fino a ricomprendervi ogni atto di consumo privato compiuto con scelte di qualità (stile di vita) e ogni atto di produzione compiuto con abilità e destrezze: i “saperi” distinti da quelli tipici del mondo seriale e meccanizzato. E abbiamo riscoperto così fenomeni ben noti e tipici della nostra esperienza passata, che ci ha da tempo insegnato che una domanda di qualità genera offerta di qualità, e quindi maggior competitività in questa gamma di prodotti, fenomeno che può continuare ad essere operante (sempreché lo si segua e non lo si dia per scontato).

In un accesso di entusiasmo ci siamo anche abbandonati a qualche enfasi, ad esempio ai dogmi delle eccellenze. Così dopo aver riconosciuta, con qualche sollievo, come parte della cultura l’enogastronomia, non diciamo più di avere prodotti tipici ma “eccellenze”, e lo stesso si ripete su tutti i fronti. Eccellenze del passato o del presente poco importa, visto che il dilemma (non semplice come abbiamo detto) sul come la cultura possa influire sulle potenzialità di una società viene spesso metamorfizzato in una operazione di branding nazionale, avendo a presupposto che la cultura per noi, è già fatto acquisito.

Un’ operazione di rilancio di immagine se riferita ai singoli casi di sicura eccellenza è utile (e si possono avere in singoli casi dei primati italiani e dei punti di forza nella concorrenza internazionale) ma se l’operazione “primati” e “primazie” è estesa con superficiale enfasi genericamente alla “cultura” come si tende spesso a fare, si rischiano errori. Oltre che lasciar in bella vista i fianchi scoperti e più evidenti i vuoti tra una eccellenza e l’altra, con grave rischio per la stessa operazione di immagine, si invita ad affievolire lo spirito critico (difficile criticare le eccellenze patriottiche senza essere considerati dei guastafeste!) e a sottovalutare quanto invece sia urgente un grande impegno culturale per il futuro dei nostri giovani e per le nostre comunità, di fronte alle varie sfide nuove e vecchie che la cimentano.

L’enfasi però non si addice alla cultura. Suo strumento preferito resta lo spirito critico che ci porta alla constatazione delle nostre inadeguatezze e alla conclusione che semmai abbiamo un gran bisogno di più cultura.

Cultura e sfide del presente- un riarmo culturale

Abbiamo bisogno di più cultura dal momento che siamo chiamati sempre più a dare valutazioni “individuali” e a determinare con la nostra “singolare” adesione decisioni su questioni complesse. Si è infatti diffuso scetticismo e disincanto rispetto ai meccanismi con cui delegavamo le scelte di fondo nel passato: ai mercati, alla concorrenza, all’allargamento dell’Europa, alle rappresentanze politiche e sindacali, alle istituzioni, ecc. E abbiamo bisogno di più cultura per ripristinare al più presto un clima di fiducia nei sistemi di delega della nostra sovranità, indispensabili onde evitare l’utopia negativa delle facili populistiche semplificazioni e l’anarchia che può nascere dalla sovrastima delle nostre capacità individuali di fronte ad un mondo narrato in modo ipersemplificato.

Anche il progresso scientifico e tecnologico chiede una maggior responsabilità individuale, chiede più capacità di discernimento e comprensione delle complessità. Il progresso dell’informatica ci rende ad un tempo più potenti e più fragili. Ci rendiamo conto che di per sè più informazione non vuol dire più conoscenza e non siamo sempre sicuri se il progresso in questo campo ci rende più liberi o più assoggettabili a condizionamenti.

Occorre a tutti noi saper vivere nella complessità, dunque occorre più cultura anche per l’accresciuto pericolo di uno sfruttamento politico ed economico di tutte quelle incertezze.

Occorre cultura per dilatare lo sguardo, per dilatare le menti, per comprendere gli effetti secondari delle nostre azioni, i diversi presupposti necessari alle stesse, gli effetti esterni, per evitare danni inutili, ma anche per cogliere opportunità che altrimenti si celano al nostro sguardo.

Occorre sapere bene cosa occorre per produrre beni privati e conoscere con egual sapienza l’importanza dei beni pubblici e delle modalità con cui possono essere generati. Occorre saper guardare al futuro e dargli rappresentanza nelle nostre scelte.

La cultura come “vita activa” – i soggetti

Che intendiamo per cultura quando, come in questa sede, la riferiamo ad una nazione o ad una comunità politica? Se lasciamo un momento da parte la “vita contemplativa” di ciascuno, dobbiamo chiarirci subito che la cultura si manifesta attraverso le azioni che progettiamo e che compiamo e sta nella qualità di queste azioni. La cultura è azione, è “vita activa”.

La cultura di una comunità ha dunque come premessa l’”attrezzatura” dei soggetti che la compongono, l’attrezzatura che consente loro di valutare, considerare, assimilare quanto si svolge intorno a loro per tradurlo in pensieri, in conclusioni, in progetti e quindi in azioni. Per quanto impalpabili e virtuali i suoi componenti la cultura si manifesta negli atti concreti

Dunque cultura è necessaria per fronteggiare la complessità della condizione umana. e la complessità delle scelte che dobbiamo compiere, sovente tra dilemmi e soluzioni contraddittorie. E nel tempo presente abbiamo bisogno di un vero e proprio riarmo culturale; l’ammodernamento delle nostre società deve infatti procedere.

L’individualismo di cui siamo portatori da quando non siamo più sudditi né servi deve aver modo di esplicarsi e ad un tempo deve essere affiancato da un crescente riconoscimento di diritti individuali e di principi di giustizia. Il sistema nel quale viviamo deve saper conciliare questi due assi orientanti, il sistema composto sia dal nostro personale carattere che e dalle nostre istituzioni deve essere robusto in tal senso, soprattutto di fronte a fenomeni che introducono modifiche di fondo nelle tradizionali forme della vita, dalla globalizzazione alle migrazioni.

Da qui l’importanza dei soggetti, nei quali si articola la società civile, individui, gruppi, associazioni e istituzioni di vario genere, della loro vitalità, della loro capacità di esprimere energie vive lungo gli assi suddetti; vitali adesioni e altrettanto vitale spirito dialettico. Da essi ci aspettiamo contributi di pensiero, di conoscenza, di trasmissione di conoscenza, di approfondimenti,

Dalle istituzioni scolastiche, scientifiche, culturali ci aspettiamo che sappiano conquistare e sviluppare rapporti fiduciari con il resto del mondo. La cultura come è stato ben detto ha come moneta di scambio non il denaro o il consenso, ma la fiducia che sola consente il dialogo e lo scambio.

Istituzioni culturali pubbliche sono necessarie e debbono aver ben chiaro il perché della loro necessità e la loro ragion d’essere. Sovvenzionate con denaro pubblico debbono essere autonome. L’autonomia è frutto dell’etica di chi è posto a governarle, ma condizioni statutarie e normative sono fattori decisivi. Le istituzioni culturali devono essere dotate di autonomia gestionale al fine di sviluppare autonomia scientifica.

Per quelle pubbliche deve affinarsi il concetto della vigilanza esercitata da parte delle strutture della pubblica amministrazione ordinaria senza che ciò implichi surrettiziamente interferenza.

La recente innovazione nella definizione e gestione dei musei dello stato mi pare un passo nella direzione che mira in prospettiva al binomio autonomia gestionale- autonomia scientifica. Ed in tal senso la iscriverei, come esempio, negli atti del riarmo culturale.

Nella vita culturale maturano facilmente attitudini burocratiche o corporative, l’ordinamento delle istituzioni deve essere tale da evitare queste tendenze, anche e soprattutto dove si richiede continuità e stabilità che vanno assicurate senza necessariamente cedere alle rendite di posizione.

Una dose di sperimentazione fa bene ovunque, una ampia dose di vera autonomia nelle scelte è essenziale. Alla cultura serve autonomia e coraggio.

La scuola ad esempio, tutta la scuola, dovrà affiancare alla rigidità di un ordinamento unico forme articolate e alla preoccupazione perequativa anche l’impegno alla valorizzazione delle individualità.

Cultura, identità e dialogo culturale

Tra i diritti da riconoscere crescono i diritti culturali. Riconoscerli non vuol dire alterare i principi costituzionali su cui si fonda la nostra libertà.

Altro discorso vale per gli eccessi di identitarismo, forma distorta e contraddittoria dell’individualismo.

Dell’espressione “identità culturale” quel che si può auspicare è che sia usata il meno possibile, soprattutto dalla classe politica.

Individuare alcuni elementi che ci distinguono è legittimo. chiedere che siano riconosciuti diritti culturali è legittimo, l’ossessione dell’identità è pericolosa, tende a diventare “instrumentum regni” di qualcuno. Di fatto l’ossessione dell’identità contrasta proprio con la cultura, termine che si invoca per difenderla.

Identitarismo e nazionalismo sono armi bipenne: possono essere utili temporaneamente per concentrare le volontà verso obbiettivi di liberazione, possono divenire strumenti di soffocamento della libertà se prorogati o applicati in condizioni non di emergenza: attenti dunque alle false emergenze e ai profittatori di false emergenze (ancora una volta l’enfasi è nemica della cultura)!

È certamente da condividere il ruolo affidato alla memoria. Ma anche la memoria soprattutto quella riferita al tempo che precede la nostra esperienza diretta, è una azione del presente con la quale scegliamo dal passato quello che può esserci utile per il presente. Non è il passato che ci sacralizza, siamo noi a scegliere dal passato quanto riteniamo utile per la nostra conoscenza, per il nostro pensiero e per la nostra azione. E il passato, per quanto diverse possano essere consuetudini e costumi, appartiene a tutti.

I nostri antenati ci hanno lasciato un grande “heritage” ma non i diritti di esclusivo utilizzo o sfruttamento, anzi semmai il compito di farlo conoscere.

Il dialogo culturale che oggi dobbiamo praticare su più vasta scala va sviluppato in termini propri e utili; innanzitutto con il riconoscimento dell’altro e poi con l’identificazione dei problemi che comportano l’agire comune.

Conoscersi è agire insieme, è identificare obbiettivi comuni, avere progetti per il futuro. Il dialogo culturale non sta tanto nella contemplazione di quel che fummo ma nel ricercare il quid agendum. In Europa molti movimenti politici si pongono il problema della difesa dell’identità per ostacolare alle elezioni i movimenti ” identitari” estremisti. L’Europa se vuol promuovere integrazione e parlare della propria identità deve non indulgere nei timori ma avere progetti nei quali coinvolgere tutti, noi e i nuovi arrivati.

È in corso in questi giorni la Biennale d’arte. Li celebriamo riconoscimenti e dialoghi, l’arte in genere tratta dell’uomo e della condizione umana, prima che l’uomo abbia etichette di religione o nazionalità, e anche per questo la diffusione dell’arte contemporanea è stata nei decenni passati fenomeno di apertura e riconoscimento.

Lo stesso accade con la Biennale d’architettura, cui abbiamo dato crescente importanza come strumento per la realizzazione di beni pubblici nello spazio che viviamo come individui e società civile. Spesso definisco la Biennale una macchina del desiderio. Il desiderio oltre al coraggio è ingrediente essenziale per la vitalità della cultura E in questo senso, in maniera simile se pur antitetica nelle finalità, a fronte degli strumenti della comunicazione pubblicitaria per alimentare consumi e potere, dobbiamo attivare i nostri strumenti atti a stimolare il desiderio di conoscere e di appartenere alla dimensione culturale.

image_pdfVersione stampabile

Numero di caratteri di questo articolo (spazi inclusi): 13717