La nuova disciplina sui musei dello stato
La Biennale può considerarsi come esempio?

Convegno del 13 ott. 2014 tenutosi a palazzo ducale organizzato da Musei Civici di Venezia

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Beni e attività culturali

Comincerò subito con il criticare il titolo della giornata, che fa riferimento, ancora una volta ai soli “beni culturali”. Avrei infatti preferito che fosse dedicato anche alle attività e alle istituzioni culturali.

E ciò per vari motivi. Primo, perché in tal modo si sarebbe meglio giustificata la mia presenza e quella della Biennale, ma anche quella degli illustri colleghi che dirigono grandi musei e che sono qui oggi immagino per parlare di quello che fanno nella gestione delle loro istituzioni, non certo per illustrare i capolavori delle rispettive collezioni.

La seconda è che si sarebbe così più nettamente sottolineato che la vitalità culturale del paese, volendola considerare oggi nel contesto internazionale, va giudicata misurando l’intensità e la qualità con cui sono sviluppate al suo interno le attività culturali e quindi la qualità dei soggetti e delle istituzioni che quelle attività svolgono, non bastando richiamare l’eredita dei beni del passato visto che anche la loro qualificazione di “beni culturali” altro non è che la dichiarata necessita di specifiche azioni e attività da svolgersi, nel presente, su di essi o con riferimento ad essi..

E quindi si sarebbe anche più precisamente riaffermato che una città, un paese e le nuove generazioni che vi risiedono possono essere arricchite ai fini della loro futura crescita e del loro sviluppo portando grande impegno alle attività svolte dalle istituzioni culturali, dalla formazione scolastica e universitaria, alla ricerca in tutti i campi, scientifico, tecnico, umanistico ivi compreso quello artistico e quella della tutela e conoscenza dei “beni”.

La riforma dei musei – le ragioni e il senso

Infine, perché così ci saremmo meglio preparati oggi a considerare alcune novità molto importanti che il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali (Franceschini) ha introdotto con il suo DPCM nell’organizzazione del suo ministero per ciò che riguarda l’organizzazione dei musei statali.

In questo provvedimento si legge che i musei devono essere dotati di “autonomia tecnico scientifica” e, per i principali tra di essi, riconosciuti “istituzioni speciali”, si parla espressamente di “attività di gestione, ivi inclusa l’organizzazione di mostre ed esposizioni” e si parla di “progetto culturale del museo che deve diventare luogo vitale, inclusivo, capace di promozione e sviluppo della cultura”. Si legifera sulle istituzioni museali, con un provvedimento che per noi italiani è una novità, fatto che va spiegato ai nostri amici stranieri

La cosa infatti potrà stupire i nostri ospiti, ma la storia italiana è profondamente diversa da quella degli altri paesi. Nel lungo periodo in cui monarchi, stati, imperatori, andavano formando musei e raccogliendo opere nei loro paesi, in Italia si verificava un fenomeno opposto: una spoliazione di vasta portata. Al cadere degli stati preunitari, al cadere delle aristocrazie locali, alla crisi economica sociale e istituzionale di quegli stati, ivi compreso lo stato della Chiesa, corrispose una grande emorragia di opere in forme legali o illegali. Chi vendette e chi si disfece in altro modo, chi rubò, e chi sostituì con falsi; un vero smottamento ferì il patrimonio artistico e archeologico italiano. Il fenomeno fu in alcuni momenti favorito da allentamenti nelle discipline che pur erano state introdotte. Giusto per fare un esempio tra i tanti: la difficile situazione economica dello Stato della Chiesa indusse nel 1858 a derogare alle regole, per consentire la cessione della stupenda collezione del marchese Campana che andò ad alimentare in perfetta legalità le collezioni proprio dell’Hermitage e del Victoria and Albert. Concorse al fenomeno la circostanza che il governo del paese, dopo l’unità, fosse affidato ad una classe dirigente di ispirazione liberista, la quale era restia ad ogni forma di limitazione della proprietà privata e degli scambi.

In questo quadro, durato molti anni, l’intervento pubblico del nuovo stato unitario italiano, più che volto a legiferare sull’istituzione di musei fu ispirato e guidato dalla preoccupazione del mettere in sicurezza il patrimonio dei beni (delle “cose” si diceva allora) ereditati e acquisiti anche nella forma di espropri. Solo nel caso dei beni ecclesiastici oggetto di esproprio, volendosi mantenere sul territorio le opere d’arte acquisite e destinandole perciò a formare “raccolte civiche” si istituirono Musei civici, istituzioni amministrative autonome sotto il controllo di enti locali. (una parte dei beni espropriati comunque fu, ed è tuttora, affidata al Ministero degli interni).

E furono forse gli avvenimenti di quei lunghi decenni di spoliazioni a condizionare e informare tutta l’azione pubblica negli anni successivi, a far sì, cioè, che le leggi in materia, più che volte a creare autonome istituzioni -museo come accadeva negli altri paesi, fossero indirizzate a nominare e incaricare ispettori, commissari, comitati, commissioni, ecc., con interventi sempre ispirati da criteri di salvaguardia o attivati per far fronte a necessità emergenziali.

Ed è forse anche per questo che nel nuovo ordinamento maturato nel secondo dopoguerra e in particolare quello formato nel 1974 (anno di nascita del ministero dei beni culturali) i musei si presentano come luoghi della “conservazione in sicurezza” affidati alle strutture del nuovo ministero e quindi alle soprintendenze. Queste nell’amministrazione italiana rappresentano un corpo dotato di diffusa ramificazione territoriale di alta professionalità, e di poteri straordinari di vigilanza e tutela sui beni culturali di tutti, pubblici o privati che siano.

In questa situazione tl direttore di un museo era un dirigente o un funzionario del ministero; il museo non aveva perimetro organizzativo proprio o contabilità propria e men che meno personalità giuridica propria. Se è vero che molti soprintendenti operarono egregiamente pur nei ristretti margini di autonomia gestionale loro concessi, restava però il fatto che in Italia il museo era essenzialmente organizzato come “luogo di custodia” di beni (molti musei hanno come organico oltre al direttore solo o poco più di uno stuolo di custodi).

La tendenza dominante restò sempre orientata a legiferare non sulle istituzioni ma sui beni e sul grande sistema amministrativo- autoritativo preposto alla tutela, che si può ben riconoscere come un’“eccellenza” dell’Italia, ma che non risolveva in modo compiuto la questione della “gestione” dei soggetti cui si erano affidati i beni artistici dello stato.

L’Italia – L’arte diffusa e concentrata

Il nostro paese si presenta una vasta diffusione sul territorio di “beni artistici e culturali, a prescindere da quelli dell’ambiente e dl territorio e del paesaggio, Si può descrivere la nostra terra come un’unica grande prateria dove sono diffuse erbe e piante preziose e nella quale si possono incontrare luoghi di maggior concentrazione di questi beni preziosi, piazze palazzi privati e pubblici collezioni, piccoli musei e poi grandi musei e poi ancora grandissimi musei dove quelle cose preziose sono state raccolte con intenti di fruizione pubblica. Per la più parte di questi beni cosi sparsi occorre una buona custodia e un presidio di qualità volto alle tutele e a consentire visite. Ma quando entriamo in un edificio che ospita un grande museo, non possiamo non rilevare che si aprono prospettive diverse circa la natura del soggetto cui affidarne la gestione. Queste concentrazioni chiedono gestioni specifiche in quanto possono rappresentare le basi sulle quali si sviluppano diverse attività rivolte alla ricerca e al pubblico. Varcando la soglia di questi luoghi si entra non in un edificio di custodia ma in un complesso potenzialmente vitale che può e deve essere attrezzato con la dovuta autonomia gestionale. per obbiettivi culturali plurimi, che vanno da una sofisticata organizzazione dei visitatori alla possibilità di assumere iniziative che rafforzino legami con le realtà locali e soprattutto che rafforzino il loro ruolo di ricerca e coltivazione della storia dell’arte e delle discipline correlate. Tra queste anche l’organizzazione delle mostre che dato il prestigio come luoghi di concentrazione di opere significative non possono che essere di alta qualità ma soprattutto espressione di una propria energia propulsiva.

Non corrispondono a questa immagine le modalità con cui sono state organizzate nel tempo le nostre amministrazioni.

Le modeste innovazioni precedenti

La rigidità amministrativa era tale per cui un ministro passò alla storia per aver introdotto per legge nel 1994 la possibilità per le direzioni dei musei di distribuire bevande o di vendere prodotti di merchandising all’interno dei musei stessi. Un altro ministro poi introdusse la facoltà di affidare a terzi anche l’organizzazione di mostre. Da qui il paradosso del mantenimento della tradizionale rigidità interna nell’organizzazione e della contemporanea facoltà di outsourcing dell’attività scientifica che si esprime nell’organizzare mostre (che quindi veniva di fatto considerata alla stregua della vendita di bibite, o di acquisto di servizi tecnici) paradosso che però darà origine ad un vasto commercio di mostre prodotte da terzi.

Col passare degli anni, dovendosi finalmente affermare il concetto che il bene artistico era non solo un valore per se da mettere in sicurezza, e quindi da considerarsi oggetto di tutela, ma un valore fonte di relazioni informazioni emozioni, conoscenza e quindi di attività culturale, nelle norme sulla disciplina dei beni a fianco del solo concetto di “tutela” si introdusse anche quello della “valorizzazione”. Senza innovare sostanzialmente sulle istituzioni che avrebbero dovuto gestire le collezioni e i musei. E’ ben evidente l’ambiguità che porta con sé il termine “valorizzazione”, ammiccante a concetti a cavallo tra valori meritori e valori monetari (tra suon di arpe angeliche e tintinnar di monete). Il codice dei beni si affrettò a circoscriverne il significato.

Era corollario di questa distinzione di termini anche la sottolineatura che il nostro paese nelle difficoltà finanziarie in cui si dibatte per l’alto debito pubblico doveva attrezzarsi meglio per reperire risorse destinate ai beni culturali non solo attraverso il circuito fiscale ma anche attraverso una maggior afflusso di pubblico nei luoghi tutelati ( da notare che per un certo numero di luoghi il problema è già quello della gestione di flussi massicci di visitatori con effetti esterni sulla fruibilità e sulla qualità della stessa visita.

Ma resta il fatto che, per le raccolte artistiche anche attenendosi ad una concezione rigorosa della valorizzazione, se si parla sempre e solo in astratto delle sole azioni da svolgere sui beni, ma non le si domicilia compiutamente, in soggetti funzionali atti a svolgerle, si lascia l’ordinamento incompiuto.

Ambiguità del concetto di valorizzazione

Capitò anche che non avendo tradotto in precise e coerenti scelte istituzional- organizzative il doppio concetto di tutela e valorizzazione, ma enunciandolo come espressione astratta di funzioni si è lasciato aperto un varco anche per uno smembramento di “competenze” (tutela e valorizzazione appunto) tra diverse istituzioni dell’amministrazione centrale e regionale, come è capitato con la riforma della costituzione di qualche anno fa (titolo quinto) che astrattamente domicilia l’attività di tutela in capo allo stato e quella di valorizzazione in capo agli autonomie territoriali . La via istituzionale organica più coerente non può che essere quella della affermazione della più chiara responsabilità dei singoli soggetti deputati alla gestione di queste realtà: E ciò soprattutto, come detto, quelle maggiori laddove una collezione per entità e qualità può essere la base per la costruzione di una istituzione culturale capace di tutela e di valorizzazione in senso pieno di tutte le potenzialità scientifico- culturali.

Il DPCM compie un importante passo in questa direzione, soprattutto per i grandi musei. che diventano istituzioni speciali.

Una volta approvato, dovranno seguire norme e disposizioni, nascerà un nuovo ordinamento, che auspicabilmente avrà ulteriori sviluppi. Auguriamoci il superamento di tutte le ambiguità anche a livello della legge costituzionale, auguriamo alla riforma un futuro fertile. L’augurio è che all’eccellenza della azione generale di tutela corrisponda eccellenza diffusa nelle gestioni museali con possibilità operative meno contratte di quelle attuali.

(Nella sede della commissione istituita dal Ministro Bray che raccoglieva suggerimenti per la riforma del Ministero dei Beni Culturali mi sono già esposto nel dire che auspico che lo stesso accada per gli Archivi di Stato).

E poiché per quanto riguarda l’arte contemporanea lo stato ha invece fin dall’inizio legiferato sulle istituzioni (Biennale, Triennale, Quadriennale, Maxxi), mi permetto di offrire l’esperienza e l’esempio della Biennale, in quanto istituzione, come uno dei riferimenti possibili.

“Il mio museo deve diventare una centrale di energia”

Che i musei possano diventare centri attivi propulsori di conoscenza e ricerca è fenomeno moderno, ma non recente, Ricordo che, all’inizio del secolo scorso, il direttore del museo di Hannover, Alexander Dorner, pronunciò la famosa frase “il mio museo deve essere una Kraftwerk” una centrale di produzione di energia; e usando questa metafora non immaginava certo che essa si sarebbe fatta realtà; ciò capitò quando un grande museo storico come la Tate Gallery nel dar vita ad un nuovo grande centro, la Tate Modern alla fine del secolo, la collocò proprio all’interno di una centrale elettrica dismessa nel Bankside di Londra.

Se l’arte antica è stata organizzata in musei creati per vario scopo, da monarchi illuminati da imperatori, da moderni stati, da nuove comunità locali che raggiungevano orgogliosa indipendenza o dalla azione di donazione di privati (come la National Gallery di Londra), l’arte più moderna, da tempo è stata diffusa da Salons, da strutture espositive di varia natura. Anche il Victoria and Albert nacque come prolungamento di un Salon (l’expo universale di Londra del 1851)

Sotto l’impulso del moderno e del contemporaneo nacquero, dopo i Salons, la Biennale e poi Documenta e poi le altre biennali, e poi nelle varie città le Kunsthallen. (Uso il termine tedesco perché è proprio in Germania e in Svizzera che il fenomeno si è diffuso dall’inizio). A fianco dei direttori tradizionali si venne creando una nuova generazione di promotori e curatori,

Nei musei storici, rallentata l’acquisizione di nuove opere, nella quale si misurarono i grandi direttori del passato, ci si dedicò ad una più attiva promozione della conoscenza attraverso indagini, mostre, ricerche, retrospettive, personali, ospitando ricercatori e artisti ecc.

E col passare degli anni accadde che sempre più musei si dotavano di strutture espositive e di ricerca e, per contro, che sempre più Kunsthallen venivano dotate di collezioni museali.

(Per non citare che i più noti, è ben noto che il MOMA possiede una grande collezione, lo stesso dicasi per la Tate Modern e lo stesso per il centro Pompidou, ecc.).

E la Biennale nacque nel 1893 a Venezia, e fu scelta lungimirante, con essa nasceva infatti, non una expo una tantum, ma un fenomeno permanente e dunque una istituzione.

Il nome divenne popolare e oggi contiamo circa 157 biennali d’arte e d’architettura nel mondo.

Le mostre quali la biennale e documenta svolsero e svolgono un ruolo importante nella conoscenza del nuovo, ma anche per le biennali l’impegno per la ricerca volto alla scoperta e alla selezione si estende sempre più anche alle relazioni con le opere del passato. Anche nel contemporaneo, cioè, dopo il tramonto delle avanguardie, appare necessario evidenziare i nessi le relazioni e leggere il presente con una profondità storica più articolata. Abbiamo definito queste biennali, biennali di ricerca. Da tempo si fa gran ricorso agli archivi e da tre anni teniamo un convegno alla fine di ogni biennale, dedicato al tema archivi e mostre.

Per contro musei storici tendono ad occuparsi anche del moderno e del contemporaneo

Un universo di soggetti e di istituzioni quanto mai variegato, una serie di opportunità da considerare nel loro evolversi.

La Biennale come esempio?

La Biennale è una istituzione autonoma fondata e definita dalla legge, come ho detto opera senza un patrimonio di beni ma solo avendo alle spalle la propria storia passata e recente.

Il suo prestigio, sta in quello che fa, per meglio dire nel modo in cui lo fa.

L’abbiamo definita anch’essa una centrale di energie, poi una macchina del vento e oggi una macchina del desiderio: una fonte di rigenerazione del desiderio di arte. del desiderio genuino di arte, che passa dal riconoscimento della primigenia e primaria urgenza dell’uomo a dare forma sensibile alle proprie idee, ossessioni, utopie.

Rigenerazione continua del desiderio, in risposta alle tendenze conformistiche del presente, al bombardamento di immagini e suoni cui costantemente siamo sottoposti, e potenzialmente assuefatti, alle vertigini del mercato dell’arte, che hanno reso l’arte contemporanea da simbolo di dialettica a simbolo di successo, e infine di fronte alla straordinaria diffusione di strumenti di accesso all’informazione via internet,

Da quando una cortina di piccoli schermi è calata e si è frapposta tra le nuove generazioni e la realtà è aumentata la necessità di predisporre luoghi e occasioni di incontro, di dialogo, di confronto, di fruizione diretta, che consentano di far evolvere l’informazione in conoscenza e consapevolezza e quindi in cultura.

Non tocca a me dire se siamo una eccellenza, per usare un termine in voga, posso dire che abbiamo operato per esserlo. Valorizzando sempre il passato e la tradizione nel momento in cui facevamo i più importanti aggiustamenti strategici.

Così è accaduto quando nel 98 invece di accogliere passivamente la critica che una mostra fatta solo di padiglioni stranieri era diventata forma obsoleta nella globalizzazione del mondo e dell’arte, non smantellammo la storia ma aggiungemmo ad essa. E così decidemmo di assumere in via permanente il compito di realizzare una mostra internazionale della Biennale a fianco della biennale per padiglioni, e restaurammo gli spazi all’Arsenale per accogliere questa grande “dilatazione”; il tutto si rinvigorì, il numero dei paesi che chiesero di partecipare aumentò le diverse nazionalità dei padiglioni divennero una pluralità di voci ( a fianco del curatore principale responsabile delle scelte della ricerca, operano 80 curatori indipendenti nominati autonomamente dai paesi).

Siamo stati sempre preoccupati di tenere ben distinta la nostra mostra d’arte dalle mostre mercato.

Abbiamo intensificato gli impegni pedagogici. Abbiamo raggiunto un crescente grado di autofinanziamento

Siamo stati guidati da una priorità: la priorità che devono necessariamente avere tutte le istituzioni culturali: ottenere la fiducia: la fiducia del proprio pubblico, dei critici, della stampa, delle altre istituzioni simili, la fiducia dei cittadini della città e del territorio sul quale si lavora e infine perché no la fiducia del contribuente per la parte di risorse che ci concede attraverso lo stato.

Fiducia durevole nell’istituzione al di là del giudizio sulle singole sue scelte.

La fiducia che deriva da un marcato spirito di ricerca dal riconoscimento che quello che si fa è frutto di una propria scelta autonoma e possibilmente coraggiosa.

Un’istituzione culturale deve essere capace di autonomia scientifica, questione che riporta agli assetti normativi e agli assetti organizzativi e cioè alla “forma dell’istituzione”, al suo modo di operare.

Una istituzione culturale deve essere in grado di avere all’interno i presidi fondamentali delle attività sensibili ricorrendo all’esterno per le attività accessorie (non deve cioè

trasformarsi in una catena di montaggio di operazioni pensate e elaborate all’esterno) mentre deve saper dialogare con le altre istituzioni a pari dignità ed essere riconosciuta da esse degna di scambi e dialoghi aventi il fine della ricerca. Deve saper lavorare per progetti.

Tornando ai Musei mi permetto a questo punto due suggerimenti.

Nel formulare le disposizioni organizzative dei grandi musei suggerisco di usare sempre l’espressione” ricerca culturale”, che assai più che il termine valorizzazione può chiarire di fronte al mondo la natura di quei nuovi soggetti.

Suggerirei anche che nella revisione delle norme sui contratti del lavoro si tenga presente e si riconosca che i contratti a progetto, che per l’industria manifatturiera può essere forma evasiva dei diritti, nella istituzione culturale è la forma paradigmatica del contratto di lavoro per i progetti di ricerca. È la forma con la quale può essere incrementato il lavoro presso di noi senza creare burocrazie.

Quanto al personale di vertice debbo dire che la parola manager mi inquieta un pò se applicata al governo delle istituzioni culturali. Non vi è definizione unica del manager pur tuttavia nella “vulgata” egli è una figura capace di ridurre costi e aumentare fatturati. Il fatturato per un manager è ad un tempo fonte di risorse e metro del risultato, mezzo e fine. Nell’istituzione culturale è solo mezzo. Il fine e il modo di raggiungerlo è cosa assai più complessa e più difficilmente misurabile quantitativamente.

Occorrono capacità amministrative dotate di cultura dell’amministrazione e di sensibilità culturale e artistica. Dobbiamo tutti darci carico dello sviluppo di una siffatta classe dirigente.

Mi auguro che negli innumerevoli e comunque già troppi corsi universitari fioriti intorno ai concetti di economia della cultura, management della cultura e delle istituzioni culturali, si insegnino queste complessità.

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